Sala piena e tesa all’iniziativa del Movimento 5 Stelle di Siena sullo scandalo del Monte dei Paschi. Sala piena che significa speranza che la gente di Siena non voglia mollare sul fare chiarezza e giustizia sulla tragedia del Monte dei Paschi, di cui la morte di David Rossi rappresenta il momento estremo e più doloroso. Una sala piena di gente che non si fa distrarre dalle sterili polemichette sullo smile di Clet su Palazzo Pubblico.
Sottovalutato e angariato dai vigili urbani senesi quando faceva i suoi disegnini sui segnali stradali. Ed era simpatico a tutti. Clamorosamente sopravvalutato ora, Clet, con quel sorrisetto che gli hanno fatto fare sulla facciata del palazzo Pubblico. Stucchevoli anche le polemiche a denti digrignanti, pure queste elemento di una sopravvalutazione che a me stona. Ma anche clamorosamente auto-sopravvalutatosi, Clet, quando lega la sua performance alla metafora del riscatto della città. Non è quello il verso. Non è più tempo di metafore ma di concretezza nella ricerca della verità, nella nostra città. E si sta o di là o di qua. O con chi vuole nascondere, velare, insabbiare, arruffare, negare. O con chi esige la verità. In mezzo al guado non c’è nulla.
Al convegno dei 5 Stelle, invitato a intervenire sul mistero di David Rossi. Questo il mio intervento
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Dopo aver ringraziato per l’opportunità, ho detto, tra l’altro: «Un presente senza chiarezza sul passato non è nulla e un futuro condizionato dal nulla su tutto quello che è accaduto alla nostra città non vale niente e sarà un futuro ancora più a rischio per le future generazioni». Ne è uscito un dibattito domenicale su Facebook che alla fine si è trasformato in un duello tra Fulvio Mancuso e Eugenio Neri. Ne emerge che non è più tempo dei distinguo semantico-storici (anche culturalmente comprensibili) espressi dal vicesindaco. Ci vuole sostanza. E Eugenio Neri, certamente netto nell’esigere verità e trasparenza fin dalla richiesta alla Fondazione di rendere pubblici i verbali degli anni delle decisioni che hanno portato allo scempio, è riuscito a far postare un commento pubblico di assoluta rilevanza, all’ex Provveditore di Mps, Marco Parlangeli. Neri fa riferimento alla decisione della Fondazione di accompagnare con un ulteriore dissanguamento di risorse, l’aumento di capitale della banca nel 2011. Si era in piena campagna elettorale. Il candidato sindaco Franco Ceccuzzi, che poi verrà eletto, era sostenitore della necessità di mantenere il 51% del Monte e quindi di sottoscrivere l’aumento, per non perdere il controllo della città sulla Fondazione.
Lo ricordo bene perché ero nel Comitato Elettorale di Ceccuzzi, come coordinatore di un Forum di partecipazione tra persone di tutti i tipi (non solo Pd). Lavorando fuori Siena dal 1995, non sapevo tante cose. Ma non mi sono neppure informato: non ho prestato attenzione alle obiezioni degli oppositori al sistema-Siena e non ho avuto, allora, guizzi da salmone. Peraltro non ricordo stuoli di contrari a quella scelta, neppure fra i candidati che si opponevano a Ceccuzzi.
Comunque sia: a luglio la Fondazione Mps sottoscrive pro-quota l’aumento di capitale da 2 miliardi di euro. Intanto, a settembre arriva la seconda ispezione di Banca d’Italia che in ottobre chiede la «discontinuità della governance». Termine poi usato da Ceccuzzi. A novembre la situazione precipita. La Fondazione Mps registra 1 miliardo di debiti con le banche che hanno finanziato l’acquisto di Antonveneta ed è costretta a vendere diversi asset tra cui il 15% della banca. Nel corso del 2012 scende al 33%. Nel 2007, prima dello tsunami-Antonveneta, era al 56%.
Ora al di là delle posizioni politiche su quell’evento, è interessante ciò che scrive Marco Parlangeli sul profilo di Massimiliano Angelini – che aveva dato origine alla interessante discussione domenicale su Fb – in risposta a Eugenio Neri. A Neri che rilancia ancora la necessità di trasparenza sui verbali della Fondazione Mps e soprattutto su quelli in cui si ratifica l’aumento di capitale del 2011, Parlangeli risponde: «Il giorno del Palio, caro Eugenio, io firmai la rinuncia all’incarico di Provveditore. La Deputazione ci fu il 26 giugno 2011 (io lessi un intervento che chiesi di verbalizzare integralmente, e così fu), il 28 giugno l’allora presidente – Gabriello Mancini n.d.r – mi chiamó per chiedermi ‘di fare un passo indietro’. Il collegamento fra i 3 eventi l’ho fatto io, anche perché nessuno, nè allora nè dopo, mi ha mai detto PERCHÉ chiesero a me, e solo a me, di fare quel passo indietro. E francamente, al di fuori di quell’ipotesi, non saprei quale altro motivo ci potesse essere. Devo anche dire che in quell’intervento mi espressi contro il mantenimento del 51 per cento proponendo una soluzione tecnica alternativa alla sottoscrizione pro quota dell’aumento di capitale che, se fosse stato attuato, avrebbe consentito alla Fondazione di evitare il disastro».
Interessante. Soprattutto se si collega a quanto dichiarato da Mancini in un interrogatorio reso pubblico da La Nazione il 30 ottobre 2014: «Nel dicembre del 2006 – dice Mancini – insieme al provveditore Parlangeli raggiungemmo un’ipotesi di fusione con il Banco di Bilbao tra le due banche- L’allora sindaco Maurizio Cenni, l’allora presidente della Provincia Fabio Ceccherini e l’onorevole Franco Ceccuzzi non acconsentirono». Mancini, ovviamente, segue la sua linea improntata all’avvalorare la tesi che lui era solo uno strumento nella morsa tra la politica senese (leggasi Pd e verdiniani) e il vertice della banca. Tesi non solo poco credibile ma anche poco dignitosa.
Ma è interessante, su quella vicenda del Banco di Bilbao, quanto dichiarato ancora da Parlangeli: «La fusione con Bilbao alla fine del 2006 era fatta. Per la Fondazione Monte dei Paschi c’era un miliardo di “premio” e la garanzia che la direzione principale sarebbe rimasta a Siena». Si era prima dell’ “affare” Antonveneta. Che, dunque, avrebbe potuto essere evitato, salvaguardando le risorse di secoli e secoli, della città. E si sarebbe realizzato dieci anni prima, ciò che si va cercando adesso: una fusione meglio con una banca estera, con enormi difficoltà vista la trentina di miliardi di crediti deteriorati che stanno in pancia al Monte.
Illuminante tutto questo. E, dunque, sarebbe importantissimo averlo disponibile quel verbale di cui accenna Parlangeli – e gli altri – di quegli anni, che Clarich non vuole rendere pubblici. Così come sarebbe stato molto più efficace che la Fondazione Mps si fosse costituita parte civile al processo Mps che si è aperto lunedì a Milano. Non lo ha fatto, spiegando in una nota che la Fondazione Monte dei Paschi «non ha chiesto di costituirsi parte civile nei confronti dei Signori Giuseppe Mussari e Antonio Vigni perché ha già chiesto agli stessi ogni danno patrimoniale e non patrimoniale (ivi compresi quello da illecito) nel processo civile pendente davanti al Tribunale di Firenze». Soluzione tecnica forse anche più efficace, ma deludente per ciò che la Fondazione Mps di oggi dovrebbe esprimere con scelte nette – e intelligibili da tutti – di cesura con il passato. Per questo la ribalta del processo di Milano era quella ideale. Paolo Emilio Falaschi al convegno dei 5 stelle ha spiegato efficacemente la materia del contendere.
Nel momento in cui va in prescrizione il processo di Ampugnano per quanto riguarda la turbativa d’asta – anche se il processo rimane in piedi, seppure molto svilito – e mentre il caso di David Rossi non viene riaperto come dovrebbe essere, il processo di Milano rappresenta una sorta di trincea per chi non vuole mollare nella ricerca della verità. Per tutti coloro che non avranno pace – come diceva in altre ere il sindaco Bruno Valentini – finché non verrà fatta giustizia sullo scempio di Siena.