Non fu un caso se Luciano Bianciardi, nel romanzo autobiografico che lo rese celebre, La vita agra (1962), raccontò di un uomo, volutamente anonimo, che lascia le campagne grossetane per trasferirsi a Milano con un preciso intento. Far saltare con la dinamite il grattacielo sede dell’industria chimica proprietaria della miniera di Ribolla, laddove il 4 maggio 1954, per uno scoppio di grisù causato da scarse norme di sicurezza, erano morti 43 minatori.
La tragedia di Ribolla aveva segnato profondamente Bianciardi. Egli conosceva bene quel villaggio minerario, gli abitanti, le loro angustie. Vi si recava periodicamente con il Bibliobus, ai tempi in cui era direttore della Biblioteca Chelliana di Grosseto, a portare qualche libro che, diversamente, mai sarebbe approdato in tali lande.
E ancora il dramma di Ribolla troverà ampio spazio nel libro-inchiesta I minatori della Maremma (Laterza, 1956) scritto da Bianciardi insieme a Carlo Cassola. Nell’Italia degli anni ’50 risultò un bell’esempio di inchiesta sociale, anche se la pubblicazione ebbe un parto travagliato, per la difficoltà a raccogliere dati (le aziende non intendevano fornirli) e per alcune divergenze con l’editore circa l’impianto ‘narrativo’ del libro. A questo proposito c’è un interessante scambio di lettere tra Vito Laterza e Carlo Cassola. Dopo aver letto alcuni capitolo, l’editore scrive a Cassola lamentando una narrazione piatta, poco drammatica. Non mancherà una risposta ferma e risentita in cui Cassola fa presente di essere riconosciuto per il suo stile sobrio, esile, antiretorico. Quindi “tutto avrebbe dovuto attendersi da me fuorché una scrittura ‘gustosa’, nervosa, vivace”. Ma la stizza di Cassola non si ferma qui e provoca Laterza con una domanda: “Ha una sia pur vaga idea dei minatori maremmani? Non sono per nulla pittoreschi. Sono gente dimessa, assai parca nel parlare … Per questo mi sono congeniali, e ho scritto molto su di loro”.
Il libro uscirà così come concepito dagli autori. Nella prosa asciutta delle sue pagine apprendiamo che a Ribolla “le case sono sparse in disordine, senza un vero e proprio tracciato urbano, case grigie e squallide, anche quelle degli impiegati o del direttore, e l’impressione prima è che non siano mai state nuove, anche se risalgono a pochi anni or sono. Sparso qua e là il materiale di miniera, travi, legname da armatura, e detriti, in una campagna brulla, senza più una fresca nota di verde”.
La mattina del 4 maggio 1954 fu quella terra orfana di fiori a essere percorsa da un boato. Il racconto di quanto accadde non poteva (e non può) che essere ugualmente spoglio.