Un anno di indagini, 28 indagati, 45 perquisizioni, un’evasione stimata per 8 milioni di euro e un sequestro preventivo della procura di 3 milioni e 200mila euro. Sono questi i numeri da capogiro che emergono dalla maxi operazione della Guardia di Finanza che ha impiegato 150 uomini per sgominare una fitta rete di agenzie, aziende e prestanomi dislocati in Italia e all’estero, in due distinte organizzazioni facenti capo a dei nullatenenti. La rete era impegnata in un vorticoso passaggio di mano di metalli preziosi, completamente fittizio, per guadagnare sull’Iva non pagata. Dei quattro soggetti arrestati ieri, tre aretini e un barese, uno di loro si è deciso a collaborare con la giustizia.
La gola profonda Gli arrestati, i fratelli E. R. e F. R., M. L. C. (aretini) e R. M. T. (pugliese) erano molto noti nel mondo orafo aretino, pur non avendo nessun ruolo operativo in un’azienda del distretto. Con questo sistema fraudolento gli uomini si assicuravano un alto tenore di vita, pur risultando privi di qualsiasi reddito dichiarato da molti anni. Di loro quattro è F. R. che ha iniziato a parlare con gli inquirenti, confermando buona parte delle ipotesi di accusa. Dalla sua bocca sarebbero usciti anche i nomi della banche in cui sono stati depositati i milionari frutti degli illeciti. Per questa collaborazione l’accusato ha ottenuto i domiciliari, mentre gli altri tre, tra cui M.L.C. che nega tutto, restano in carcere. Il capo d’imputazione è associazione a delinquere finalizzata alla truffa aggravata ai danni dello Stato, all’evasione fiscale e all’emissione di fatture per operazioni inesistenti, con l’aggravante della transnazionalità del reato dovuta all’approvvigionamento di preziosi in società svizzere e portoghesi.
Dieci le aziende coinvolte di cui nove del distretto orafo aretino I 28 indagati facevano parte di due organizzazioni gemelle: il gruppo che rispondeva ai fratelli R. comprendeva 12 soggetti, mentre quello sotto la guida di M.L.C. coinvolgeva 16 persone. Il movimento di preziosi partiva dai banchi di metallo che fornivano argento fino (esente Iva), che passava per una società filtro collegata ad altre società fantasma che rimanevano aperte per pochi mesi prima di essere liquidate. L’argento puro veniva trasformato in semilavorato, cioè fuso in verghe, senza alcuna reale finalità commerciale, ma solo con il solo obiettivo di assoggettare ad Iva le successive vendite attraverso società fantasma dette “cartiere”, che non versavano le imposte. Le verghe passavano poi ai clienti che, acquistando l’argento a prezzi vantaggiosi e inferiori a quelli dei banchi metalli autorizzati, lo rivendevano per farlo affinare, ma ad un prezzo più alto, con la consistente aggiunta del 22% d’Iva. Nessuna delle cartiere pagava l’Iva, tantomeno le società fantasma che morivano e rispuntavano in brevissimi tempi. Il guadagno enorme stava proprio in quel 22% di Iva che con questi passaggi entrava direttamente nelle tasche delle organizzazioni, che così facendo avevano grandissimi margini di profitto.
Prestanome addestrati Insieme alle aziende, e ai quattro arrestati, sono stati individuati tantissimi prestanome, anche loro indagati, che avevano il compito di dirigere e seguire gli spostamenti del metallo. Questi soggetti erano diretti dai vertici dell’organizzazione con regole ferree, quasi militaresche: venivano addestrati sul comportamento da tenere in banca, veniva imposto loro un determinato abbigliamento e modo di parlare, per risultare il più possibile credibili. Per gli altri metalli usati nella truffa – palladio, platino e rodio – il procedimento era lo stesso, a differenza dell’approvvigionamento dei preziosi, che derivava anche da società svizzere e portoghesi.