Vivono nelle parole gli uomini e le donne, vivono nelle storie che di loro si conservano e si tramandano. Ma perché non se ne perda traccia c’è bisogno di persone che se ne facciano carico. E che le scrivano o le accompagnino a un sorso di vino in un’osteria, sono come maghi, che in qualche modo restituiscono ciò che si può restituire della vita.
Uno di loro è Maurizio Maggiani, grande affabulatore, nei cui romanzi non ho mai cercato una trama compiuta, ma semmai una cascata di storie, che sgomitano, si incrociano, si sovrappongono, si tengono insieme. E questo vale più che mai per “Meccanica celeste” (Feltrinelli), libro a cui sono arrivato dopo una lunga attesa e con qualche diffidenza.
Un libro che è allo stesso tempo facile e impossibile da raccontare. Siamo nelle terre che Maggiani chiama il “distretto”, lembo di terra aspra e isolata tra la Toscana e la Liguria, terra di marmo e ribelli, di emigranti e di santi che non sono nemmeno nel calendario. Il narratore mette in cinta la sua compagna la notte dell’elezione di Barack Obama. Nei nove mesi di attesa ci saranno le storie a preparare la vita che arriva. Storie che affiorano dalla memoria e dalla terra. Storie del narratore e del mondo intorno, con i suoi legami di sangue e di affetto. Avanti e indietro nel tempo, dall’antica Roma alle battaglie sulla Linea Gotica fino alla bomba della stazione di Bologna. E quante storie, quanti volti che emergono dalla folla e si fanno sostanza, cuore pulsante, racconto.
La Duse e la Santarellina, l’Otello e l’Omo Nudo, Don Gigliante e la Marta, fino al soldato venuto dal Brasile, lui che doveva liberare la Grecia e invece si trovò sotto le Apuane. Staffette partigiane e maestre elementari, suonatrici di fisarmoniche e pastori d’anime….
C’è un filo? Forse no, ma che importa. Il filo è la voce che narra. Il filo è noi che ascoltiamo. Il filo sono i racconti che ci salvano.