luzi6gp.jpgIl drappellone del Palio dell’Assunta 2014, commissionato al pittore bulgaro Ivan Dimitrov, comprenderà un’esplicita dedica a Mario Luzi, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita. Un atto dovuto, in considerazione di quanto il poeta abbia amato Siena. La città in cui – come egli ebbe a dire ripetutamente – trascorse «anni di estatica delizia», gli anni dell’adolescenza, il tempo nel quale un ragazzino elabora i «primi vaghi e ardui proponimenti di opera futura. E i propositi del giovanissimo Mario, giusto a Siena andarono a definirsi con sorprendente precocità: lui avrebbe inteso la propria vita a perseguire arte e bellezza, perché il contesto in cui si era ritrovato a vivere, dimostrava che arte e bellezza erano possibili, praticabili; altrimenti non sarebbe potuta esistere tale «opera umana già fatta, già splendidamente e favolosamente fatta». Ecco, così, la folgorazione, la «luminosa scoperta» di un adolescente venuto nella città del Palio per frequentare il Ginnasio e che fantasticava davanti alla solitaria cavalcata del Guidoriccio da Fogliano, si esaltava alla lucentezza di marmi e cotti, «nell’impatto fra una Siena interiore e immaginaria e una Siena visibile nell’imperiosità delle sue forme».

Siena caput mundi Nativo di Semproniano, località del grossetano nella parte più interna delle colline tra l’Albegna e il Fiora, a Luzi piaceva ricordare come, in famiglia, Siena avesse comunque rappresentato “la città”, la polarità su cui convergevano interessi, cultura, cura della salute, incombenze da sbrigare, reminiscenze e nostalgie (in scuole senesi avevano studiato il babbo e gli zii). Persino quando i Luzi, seguendo gli spostamenti del padre ferroviere, si trasferiranno a Castello (allora frazione di Firenze), Siena resterà il “caput”, il punto di riferimento, il luogo del mito. E’ dunque comprensibile lo stupore di un ginnasiale, a pensione in una casa di piazza Provenzano (in seguito alloggerà anche in via di Città e in via Dupré) che sente coincidere dentro un’unica emozione la città immaginata e quella reale. Sarà quel tempo incantato a offrirgli anche gli iniziali tremori amorosi verso una compagna di scuola che, ai primi rudimenti di greco, scrisse sul diario di colui che sarebbe diventato uno dei maggiori poeti del Novecento, «emù mémneso», non dimenticarti di me. E questo avvenne, poiché un siffatto innamoramento – ancorché vagheggiato, inespresso e distante – non venne mai scordato. Entrò a far parte di un sognante universo dove, però, le cose accadevano veramente. Ciò che in età matura egli avrebbe definito  «un manifesto enunciarsi del vero, del vero reso sublime poi dall’alto stile che la città si era dato». Non esclusivamente per l’aspetto monumentale, ma per «lo stile del vivere, del convivere, del passeggiare, dell’esistere a Siena».

Un modello di perfezione La vocazione artistica del poeta fu segnata a tal punto dagli anni senesi (un balenio di appena due anni dei 91 proficuamente vissuti) che Siena (ovvero quanto essa rappresentava in termini estetici e spirituali) resterà sempre sua interlocutrice. Ne fa fede il poema “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini” (dedicato «alla città di Siena, alla mia adolescenza, alla memoria dei miei compagni»), dove si immagina, appunto, il ritorno di Simone (alter ego del poeta) da Avignone a Siena. Una sorta di pellegrinaggio, di percorso iniziatico e purificatore. Viaggio che ripercorre il vissuto dell’artista, i suoi affanni esistenziali, i modelli esteriori e interiori cui si è ispirato. Ma soprattutto viaggio del ricongiungimento, del ritorno a Siena ormai trasfigurata in una specie di Gerusalemme celeste. Del resto Luzi aveva spesso definito la città con termini mutuati dal linguaggio sacro, come quando la paragona ad una «parusìa», cioè ad una presenza del divino, dell’essenza ideale che si manifesta nella materialità del mondo. Nel “Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini”, l’approdo a quel luogo dell’anima è preceduto da stupore, ansia, incertezza, esaltazione. A un certo momento Siena pare svanire “nel celeste della sua distanza”. La città “si ritira nel suo nome”, “s’interna nell’idea di sé”, “si brucia nella propria essenza”. Simone la perde, la rintraccia, la perde nuovamente. In quanto città della Vergine la prega di rimanere dove è, così come la vede; di non ritirarsi da quella immagine, di non involarsi dai fermi lineamenti che lui le ha dato nella pittura; di non lasciare deserti i giardini d’azzurro, di turchese, d’oro, di variopinte lacche dove ella si è insediata, offerta alla pittura e all’adorazione. Simone/Mario la supplica di restare, pena la trasformazione di tutto ciò che egli ha creato in una derelitta plaga, in una mancanza di primavera, d’anima, di fuoco, di spirito del mondo…, che farebbero ricadere la sua opera su sé medesima, portandola ad essere vaniloquio, addirittura colpa.

Il furore policromo Non meno intense risulteranno le considerazioni (le folgoranti immagini) che Luzi ebbe modo di elaborare sul Palio, per il quale usò ricorrentemente l’aggettivo “endemico”, ad evidenziare quanto persistente e radicato esso sia nello spirito dei senesi. Al punto che “erompe dalle latebre della senesità in modo inintelligibile ai senesi stessi”. Inutile, pertanto, volerlo ricondurre a categorie razionali, criteri comparativi. Il Palio «cumula tutte le pulsioni latenti e tutte quelle manifeste in una sola agonia, agonia nel senso etimologico di combattimento, lotta interna». Luzi tentò, da par suo, di spiegare la Festa di Siena pure a chi la avversa con periodici rigurgiti, significando loro che al Palio di Siena non possono essere applicati princìpi impropri «ed estranei alla natura esplosiva dell’inconscio endemico». Le suggestioni, i sentimenti luziani rispetto al Palio, sono efficacemente espressi in un testo poetico contenuto nella raccolta intitolata “Per il battesimo dei nostri frammenti”. La corsa è «furore policromo», «bruciante mulinello». Ancora una volta si ripropone un tormento di sguardi, di prossimità, di spaesamento e incontro tra il poeta e la città («mi guarda Siena / da dentro la sua guerra / mi cerca dentro con gli occhi / addannati dei suoi veliti / percossa dai suoi tamburi / trafitta dai suoi vessilli”). Improvvisa, però, nasce la sensazione di non essere visto (“e non vede me / non vede in me la mia infanzia / che di lei fu piena…»). E’ lo stesso tema che verrà riproposto nel “Viaggio di Simone”, laddove l’artista può finalmente concludere: «Siamo ancora / io e lei, lei e io / soli, deserti. / Per un più estremo amore? Certo».

Amore reciproco Può comunque dirsi che l’amore tra Luzi e Siena non ha mancato di reciproca riconoscenza. Nel 1992 il poeta fu insignito della cittadinanza onoraria. Nel 1996 gli fu conferito il Mangia d’Oro. Nel 2002 la Provincia pubblicò il volume “Mi guarda Siena” (curato da Carlo Fini e Luigi Oliveto, con foto di Pepi Merisio) nel quale vennero raccolti tutti i testi luziani, poesie, prose, interventi e interviste dedicati a Siena e alle sue terre. Proprio in una lettera ai curatori del libro egli scrisse: «non è stata avara con me Siena e non lo è stata nemmeno la sua terra, se non altro perché mi hanno l’una e l’altra largito generose amicizie…». Oggi Siena gli dedica il Palio della Madonna Assunta. Piace allora pensare che in quegli attimi in cui sul Campo il tempo annulla il tempo, con/fonde il prima e il dopo, fa della morte divenire (concetto tanto caro a Mario Luzi) possa lui guardare Siena e Siena lui: «Per un più estremo amore? Certo».