La sensazione è quella di essere lapidati o – per dirla con un termine di moda – “bullizzati”. Nel giro di pochi giorni le Contrade sono state paragonate alla massoneria e i contradaioli a tifosi del calcio. Il primo accostamento suggerisce, nelle intenzioni di chi lo ha fatto, una presunta propensione all’intrigo e alla lobby; il secondo a una violenza incontrollata e bestiale da ultrà.
In tutti i casi il comune denominatore è lo stesso: la denigrazione e la pervicace volontà di ignorare il nostro mondo di valori e una cultura millenaria, che eccede e va oltre all’informazione, alla legge e prende la forma di una lunga serie di piccole e grandi prepotenze.
Perché io non ci credo, no, che chi non è di Siena non possa capire. Che non possa comprenderci. Credo che, semmai, possa non provare le nostre stesse emozioni, ma questo non ha molta importanza, dato che l’emozione è cosa personalissima.
Credo, invece, che – mai come nel caso di questi ripetuti attacchi alle Contrade e al Palio che vengono da più fronti – “non ci sia peggior sordo di chi non vuol sentire”. E questo non implica (almeno, non sempre) la stupidità o l’ignoranza dell’interlocutore.
Verosimilmente non verrebbe presa nemmeno in considerazione la differenza tra tifo calcistico e passione contradaiola come la spiegava Gianni Roggini: “Se vince o perde la squadra del cuore vince la squadra del cuore, ma se vince o perde la mia Contrada vinco o perdo io”. Poiché ci si rifiuta persino soltanto di ascoltare, utilizzando generalizzazioni persino offensive, uno studioso del calibro di Giuliano Catoni.
Cosa diceva nel suo intervento, negato in tribunale? Facendo una disamina storica di fatti accaduti, dal gioco delle pugna e dell’elmora ad oggi, Catoni parla dello spirito che – oggi come allora – li anima come “La voglia di vincere, di umiliare gli avversari, di far pesare sulla bilancia della vita la propria appartenenza a un gruppo, che dimostri di essere il più forte o il più fortunato, o il più numeroso o il più ricco: ecco i connotati della passione contradaiola”. Dove anche la fisicità e lo scontro assolvono al compito quasi di “funzioni rituali che fungono da elemento di coesione popolare e di naturale richiamo a un passato tuttora condizionante”.
Anche se nell’aula di tribunale è stato impedito di riferirsi al passato per inquadrare gli episodi palieschi, è utile ribadire che nel passato più recente la repressione verso le Contrade ha registrato solo interventi sporadici: se togliamo quello del 1966, al quale peraltro fece seguito una reazione popolare molto forte, che nel momento attuale è mancata, la stampa locale degli anni Sessanta e Settanta riporta cronache fotografiche di contatti animosi fra contradaioli con una descrizione precisa dei fatti che forniva addirittura nomi, cognomi e tipo di contusione riportata. Tutti parlavano di cazzotti – dati e presi da persone che peraltro erano e sono consapevoli e consenzienti rispetto a ciò che accadeva – senza tante drammatizzazioni e sovraesposizioni mediatiche, nessuno parlava di rissa aggravata e la pace sociale era mantenuta. Questo atteggiamento non credo sia ascrivibile a incompetenza o superficialità della magistratura di allora, ma affiancava una necessaria e vigile severità a una tacita tolleranza, sempre entro certi limiti, del modo di essere contradaiolo, che non è certo incentrato sulla violenza, ma che porta avanti profondi e nobili valori umani, una civiltà autentica e partecipata.
Quello che Catoni, nella sua inascoltata memoria, riferendosi allo spirito contradaiolo, definisce come “una sorta di religione civica che anima il rito paliesco ed è espressione di una cultura tramandata lungo gli anni da un’intera comunità, fa sì che questa si divida per sentirsi unita, in una sorta di faziosa armonia”.
È la cultura di una comunità, la “faziosa armonia” messa in luce da molte menti brillanti e uomini illustri, che i processi mediatici e ancor più quelli che si svolgono nelle aule del tribunale rischiano – più o meno intenzionalmente – di minare.
Che cosa motiva questa attuale, voluta e generalizzata mancanza di empatia con la comunità senese? Forse il tentativo determinato – operato su più fronti – di normalizzazione, non serve soltanto a contenere le istanze di libertà personale e collettiva portata avanti dalle Contrade, lo spirito di indipendenza ancora vivo, la fierezza, l’orgoglio dell’appartenenza (è sotto gli occhi di tutti il tentativo di farci vergognare, tutti quanti, di essere senesi!).
A chi o a cosa può essere utile una integerrima severità, il dimostrare di essere “più realisti del re”?
Forse l’inflessibilità serve anche a ribadire la normalità della giustizia, l’imparzialità di chi la amministra, il non guardare in faccia a nessuno?
Forse che ascrivere a rissa aggravata – qualcosa che può accadere ovunque – i fatti di Palio, ha come effetto collaterale quello di mostrare che a Siena accadono cose normali, banali, che Siena è una città come un’altra, forse peggiore di altre a livello di popolo, e non la città dei tracolli epocali?
Forse che Siena, dove sono accaduti eventi straordinari e sconvolgenti, deve a tutti i costi essere normalizzata e un processo ai contradaioli può portare da un lato alla distrazione, dall’altro alla disgregazione sociale, all’avvilimento, alla resa totale e incondizionata della nostra identità di comunità?
Intendiamoci bene: qui non si tratta di apologia o di ribellione verso le leggi dello Stato, che sono uguali per tutti e come ha acutamente notato Daniele Magrini dovrebbero essere valide anche per i calcianti fiorentini, fino – aggiungo io – alla battaglia delle arance di Ivrea, che conta moltissimi contusi.
Qui si tratta di contestualizzare i fatti all’interno di quelli che il Magistrato delle Contrade chiama giustamente i “valori etici” e la cultura profonda testimoniati dalle Contrade: valori di solidarietà, di civiltà, che un processo al Palio rischia di spazzare via.
La sensazione diffusa tra i contradaioli è molto più del “profondo disagio” del quale correttamente, con una sfumatura di eufemismo, parla il documento – forte e condivisibile – del Magistrato delle Contrade.
È la sensazione di essere rabboniti e incensati a parole e umiliati, vilipesi nei fatti. Un profondo disagio che dovrebbe riunire le Contrade a intraprendere azioni efficaci, ad esprimersi all’interno della legalità uniti con forza e con decisione, con lo strumento delle proprie assemblee e delle proprie democratiche istituzioni, per rivendicare con orgoglio, determinazione e coraggio la natura profonda della propria cultura e della propria civiltà; perfezionando e, se necessario, creando nuovi strumenti di autodeterminazione; opponendosi con la forza della propria civiltà millenaria e in tutte le maniere lecite, anche con azioni eclatanti, a quello che è percepito dai più come un disegno, portato avanti su più fronti, di disintegrazione del tessuto sociale, del quale il Palio e le sue tradizioni non sono che l’ultimo, difficile baluardo da conquistare.