In tempi in cui l’orrore della guerra e del fanatismo pretende il suo tributo non solo di vite ma anche di opere d’arte – pensiamo a Mosul o a Palmira – mi ha fatto bene leggere questa storia di un uomo che la guerra – un’altra guerra, ma non importa – ha attraversato con la sola missione di salvare l’arte.
Bella lettura, “L’arte fiorentina sotto tiro” di Frederick Hartt (Clichy), la storia, raccontata in prima persona, di un giovane storico dell’arte che dal New England sbarca in Italia con l’esercito alleato: uno dei “monument men”, ovvero degli uomini che si spingeranno in prima linea per salvare il nostro immenso patrimonio dalle distruzioni dei combattimenti e dalle razzie dei nazisti.
Scritto anche bene, questo libro, diario e cronaca ma anche avventura appassionante. Con momenti di straordinaria commozione: il giorno in cui i ponti e le torri medievali di Firenze furono spazzate via dalle mine naziste, ma anche il giorno, poco dopo la Liberazione, in cui proprio Hartt caricò un intero treno di opere che a Firenze erano state sottratte: e quello fu anche il primo convoglio civile a riattraversare il Po dopo la guerra.
E bella la figura di Hartt, che a Firenze tornerà per l’alluvione del 1966 – altra ferita enorme alla nostra arte – per poi esservi anche seppellito.
Che poi lo so che a uno viene da domandarsi: pensare ai quadri, alle statue, nell’orrore della guerra? E le vite umane?
E io dico: sì, proprio così. Anche questo è opporre la civiltà alla barbarie e aprirsi un varco verso il futuro.