Con il nuovo restyling grafico del portale lanciamo una nuova rubrica dedicata alle riflessioni su Siena, la sua storia, il suo presente e, perchè no, le prospettive future. L’abbiamo voluta chiamare “Sì è Siena” ricordandoci di un adesivo che andava di moda negli ann Ottanta e veniva mostrato, con orgoglio, dai senesi per rivendicare l’appartenenza. E quel “Sì” a significare, oltre le iniziali della città, anche un innato senso di ottimismo, apertura, condivisione. Stati d’animo che vorremmo qui valorizzare. Intanto, pubblichiamo questo piacevole intervento di Luigi Oliveto in merito al “Governo dei Nove” e alle allegorie del Buongonerno, periodo tanto splendido quanto mitizzato nella storia senese in cui per poco più di 60 anni tremila persone si succedettero alla guida della Città, fino a formare una classe dirigente composita ma coesa nell’obiettivo della difesa e prosperità della Città e del Bene Comune. Utile lettura per domandarci se la Storia può ancora essere maestra di vita. Buone riflessioni (M.T.).
Giunti al termine del nostro ciclo di ‘passeggiate d’autore’, che hanno percorso i più diversi segmenti di storia senese, la conclusione non poteva che avvenire qui. All’interno di questo palazzo che riassume in bellezza, ricchezza artistica, forza evocante, l’orgoglio e la memoria di ciò che qualcuno si è spinto a definire ‘civiltà’ (‘civiltà senese’) o, comunque, una notevolissima testimonianza di civismo.
Non a caso abbiamo preso a esplicazione di questa testimonianza di senso civico, di governo illuminato e lungimirante, proprio il ciclo di affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti, conosciuti come Gli effetti del Buono e del Cattivo Governo. Ma crediamo sia interessante accennare almeno ad alcuni richiami storici per capire in quale contesto sia nato tutto ciò.
Dobbiamo, dunque, parlare del Governo dei Nove, che fu una delle più importanti magistrature della Repubblica di Siena e che restò in carica dal 1287 al 1355, fino a quando problemi economici, politici, carestie, epidemie, e non di meno tradimento degli ideali e delle scelte politiche che fino ad allora avevano guidato i noveschi, contribuirono in modo decisivo a farlo cadere.
In questi quasi 70 anni Siena conobbe una fase di grande sviluppo. Risalgono a quell’epoca, tanto per fare degli esempi, la costruzione del Palazzo Pubblico e del Duomo, così come buona parte del completamento della cinta muraria.
I Nove, tanti erano coloro che formavano la Giunta della Repubblica di Siena, provenivano dal ceto medio, ovvero da una classe sociale piuttosto ampia, quale era quella di commercianti e artigiani. Gente concreta, ma non ottusa, che sapeva coniugare imprenditorialità, buon senso, lungimiranza; e che intendeva dare centralità al benessere di tutti. Tant’è che in molti documenti ufficiali si legge la firma dei Nove quali “governatori e difenditori del Comune e del popolo di Siena”.
Il Governo dei Nove si insediò nel febbraio del 1287 con questa procedura. Il Podestà e i consoli della Mercanzia scelsero sei componenti, due da ogni Terzo della città, e i sei prescelti nominarono i tre rimanenti, uno da ogni Terzo. Da allora in poi, ogni due mesi, venivano scelti dal Concistoro altri nove soggetti valutando le loro attitudini e capacità. Si consideri che nell’arco dei 70 anni in cui governarono i Nove, si alternarono circa tremila persone. Per essere nuovamente nominati occorreva una vacatio dalla carica di almeno venti mesi. Si instaurò anche una regola per evitare nepotismi e conflitti di interessi, vietando la contemporanea presenza in giunta di parenti e affini, nonché di soci in attività commerciali.
Successivamente al 1318 si cambiò sistema. Il consiglio comunale, a fronte di alcuni elenchi, selezionava e votava i nominativi di coloro che sembravano più idonei all’incarico. I nomi dei più votati venivano trascritti e sigillati in pallottole di cera. Ad ogni bimestre venivano estratti i nove per il nuovo mandato amministrativo. Questa pratica dei ‘bossoli’ proseguì fino al Settecento, quale garanzia di alternanza e di democrazia.
I Nove, inoltre, avevano un vincolo di residenza all’interno del Palazzo comunale, vivevano pertanto separati dalle loro famiglie, e il loro mantenimento era a carico della pubblica amministrazione. Con tale sorta di reclusione si intendeva garantire la totale dedizione agli affari della comunità e, allo stesso tempo, evitare contatti esterni che avrebbero potuto costituire occasioni di corruzione o, comunque, di pressioni e richieste inopportune. Le uscite e gli incontri con il pubblico avvenivano solo in occasioni ufficiali. Proprio per consentire loro di prendersi ogni tanto una ‘boccata d’aria’ fu costruita la Loggia che affaccia sulla campagna senese.
In un siffatto assetto di governo, tendenzialmente popolare, non si fu comunque così ingenui da emarginare del tutto i nobili, che costituivano la parte più ricca della città. Essi, perciò, pur essendo esclusi da incarichi di governo, avevano facoltà di far parte del consiglio comunale e potevano continuare ad usufruire di leggi speciali come quella che consentiva loro condizioni migliori nelle carceri. Cariche governative erano inibite anche a medici, giuristi e notai, poiché si temeva un uso improprio della loro scienza a proprio vantaggio e a discapito delle classi più deboli. Le loro competenze venivano tuttavia utilizzate per consulenze e consigli.
Una testimonianza davvero sorprendente di questa politica rivolta alle classi meno abbienti è rappresentata dal Costituto di Siena promulgato dal Comune nel 1310. Si trattò, per l’epoca, di un testo pressoché unico, scritto in lingua volgare e a caratteri grandi perché potesse essere letto e compreso anche dalla gente del popolo.
La ragione della sua redazione e della sua possibile consultazione fu quella di rendere edotti i cittadini sui loro i diritti e, conseguentemente, su eventuali abusi che i poteri pubblici avrebbero potuto compiere a loro danno.
Tralascio di dire tutta la parte organizzativa con cui veniva governata la città, l’ordine pubblico, le imposte, i commerci, la politica espansionistica (si pensi al progetto di dare al territorio della Repubblica uno sbocco sul mare con il porto di Talamone), per tornare ancora sugli aspetti più legati ai valori e agli ideali di riferimento dell’azione governativa dei Nove, così come sono riassunti negli affreschi di Ambrogio Lorenzetti, negli Effetti del Buono e Cattivo Governo.
Come vi è stato detto, quei dipinti, realizzati tra il 1338 e il 1339 sono un originalissimo racconto per immagini che mai la pittura civile medievale potesse aver concepito.
Furono anch’essi voluti dagli ambiziosi governanti noveschi, affinché, ora in modo didascalico, ora con suggestive allegorie, si esplicitasse la loro idea di città, la loro ‘cultura di governo’. Un manifesto politico, forse non del tutto immune da demagogia. Un enorme spot di governo, potremmo insinuare.
E’ innegabile un aspetto autocelebrativo che ritroviamo anche nella conformazione della piazza del Campo: la sua pavimentazione in nove spicchi, l’anfiteatro formato dai diversi edifici, il tutto che converge – e se ne coglierà il valore simbolico – verso il Palazzo Pubblico, raro e splendido esempio di architettura gotica civile.
Ebbene, nel caso degli affreschi del Buongoverno restiamo presi – oltre che dalla loro bellezza artistica – da quella affascinante sintesi tra idealità e concretezza che essi esprimono, c’è benessere dei singoli e comune prosperità, fruttuoso interagire tra pubblico e privato.
Così come vediamo una città che non è altra cosa dalle terre che la circondano. Tra città e campagna assistiamo a un’osmosi di relazioni umane, imprese, laboriosità, scambi. In questo nesso simbiotico tra città murata e ambiente circostante, Siena appare come caput di un contado che alla città garantisce il sostentamento in cambio di pax e securitas. Vediamo, allora, che le terre senesi si estendono anch’esse con l’impronta del perfetto equilibrio, con la stessa grammatica estetica che troviamo all’interno del tessuto urbanistico. Un medesimo calco di composta nobiltà e bellezza.
Lasciamoci coinvolgere anche da una lettura emotiva di quest’opera d’arte. Modello di un’utopia praticabile, il Buon Governo del Lorenzetti resta, attraverso i secoli, l’immagine di città-mondo che tutti vorremmo. Basti osservare la festosa scena delle ragazze danzanti (una coreografia della concordia) o il corteo nuziale che sullo sfondo di torri e castellari incede con naturale eleganza. Sorta di affermazione del diritto alla felicità, al ‘lusso’ dei sentimenti, alle ragioni del cuore.
E poi – icona bellissima – quella figura di giovane e florida donna, che impersona la Pace. Siede serena, ma vigile a osservare ciò che accade tutt’intorno, un quotidiano mondo di cose e di persone, di fatica e di spensieratezza. Una operosità che lei apprezza sostenendosi, garbatamente, nuca e pensieri con una mano, mentre l’altra erge un ramoscello d’olivo. Appoggia i piedi su una cassetta di residui armamentari di guerra, così da inibirne l’uso. Diversamente tanta pacata femminilità potrebbe trasformarsi in una madre-coraggio fiera e ringhiosa. Di lei, poi, piace lo sguardo affatto pago, anzi spalancato su una sorta di attesa. Occhi allertati sull’orizzonte, che la dicono presente nell’oggi, ma anche oltre. Ella, infatti, vede la scena circostante, ma sembra prefigurarsi pure il futuro, nuovi scenari, nuove alterità. Indossa, peraltro, un abito che non la connota più di tanto nel suo tempo, che ne lascia intuire forme e nudità. Quasi a significare che “per stare in pace” occorre rendere il proprio essere, la propria imperdibile identità, comunque in sintonia con chi (in corpo e mente) possa “vestire” diversamente da noi.
Per finire: tutto ciò è retorica? Non credo. Quando osserviamo quel corteo di reggitori dello Stato che sotto lo sguardo di Pace e Giustizia vanno ad onorare il Bene Comune, viene altrettanto spontaneo chiedersi perché non trovare il modo per ridisegnare al presente idee, idealità, pratiche di buongoverno sugli scenari talvolta desolanti e ancora provvisori del nuovo millennio. Ma questo sarebbe un altro discorso.