Mai affrontare con i bambini discorsi filosofici. Troppo superiore, rispetto a noi adulti, è la loro capacità speculativa, l’elaborazione del paradosso. Ne ebbi prova, tempo fa, con una mia sagace nipotina, allorché argomentò che lo spaventapasseri del Mago di Oz possedeva già il cervello, altrimenti non avrebbe potuto dire di desiderarlo. Davvero faticoso fu dirimere la questione, peraltro non tralasciando l’ipotesi che gli spaventapasseri potessero essere persone vere. Ed è ovvio che venni convinto circa la natura umana dei simpatici fantocci. Nondimeno perché di noi uomini fanno le veci. Ficcati in terra a far paura, ma soprattutto a esorcizzare le paure nostre; ad ingraziare la natura, che dinanzi alla bizzarria di siffatti manichini accenni almeno un sorriso. Persino i passeri stanno al gioco. Fingono spavento e poco più in là banchettano giulivi tra le spighe. Vita comunque grama conduce l’uomo di paglia, che già nel 1612 il vocabolario dell’Accademia della Crusca chiamava “spaventacchio” o “spauracchio”, poco più di uno straccio “che si mette ne’ campi sopra una mazza; o in su gli alberi, per ispaventar gli uccelli”. Fin dalla nascita il poveretto dovette soffrire di complessi. Figurarsi, poi, quando apprese che la sua sagoma, messa a presidiare campi ed orti, era andata a sostituire quella del macho Priapo, le cui esagerazioni anatomiche bene si prestavano ad auspicare natura fertile ed abbondanti frutti. L’avvilente condizione dello spaventapasseri non sfuggì a Giovanni Pascoli, il quale al racconto lirico della vita agreste dedicò interi poemetti. Così che il poeta, osservando l’operazione della semina, riporta le sconsolate parole del contadino (“Il più del seme ai passeri lo gitto”) mentre (più per esorcismo che per convinzione sulla reale utilità) traffica a costruire “un uomo d’una cappa e d’un cappello”. Detto fatto. Appena il contadino, zappa in spalla, s’incammina verso il “tramonto dorato”, ecco arrivare i passeri (“Erano cento e cento…”). Poco o niente può fare il “poveruomo” che “ha l’ali, al volo è pronto; ma è confitto, e lo patulla [se ne prende gioco] il vento!”. Quel destino di impotenza e di esistenza cenciosa, quello stare “ritti là in mezzo, sventolando le … maniche vuote” (scrisse Natalia Ginzburg), smuove talvolta un sentimento di pietas, come testimonia anche Carlo Cassola nelle pagine de Il cacciatore: “Guardava lo spaventapasseri strapazzato dalla pioggia: le veniva fatto di compatirlo, come se fosse stato davvero un uomo”. Fino a significare, nel Montale di Satura, qualcosa di metafisico, perché “Il mio sogno non è nell’estate / nevrotica di falsi miraggi e lunazioni / di malaugurio, nel fantoccio nero / dello spaventapasseri…”. Oggi, nel tempo in cui sembrare e più importante che essere, gli spaventapasseri – ironici feticci, giocosi clown, simil-uomini o angeli burloni – sono, invece, ciò che non sembrano: al vento che soffia sulla fatuità dei giorni nostri, sono essi i veri uomini, noi il loro surrogato. Pure gli uccelli dei campi l’hanno inteso.