Con il trascorrere degli anni, più la critica letteraria approfondisce Federigo Tozzi, maggiormente si rivela la modernità di questo scrittore, davvero in anticipo sul suo tempo per come abbia saputo aprire il contesto provinciale a un respiro europeo, attraverso un singolare percorso che, come è noto, intreccia vita, scrittura, elementi di ricerca psicanalitica.
Ad ogni rilettura tozziana continua a meravigliare e quasi sconcerta quel suo raccontare “nulla” (dal punto di vista delle storie) a fronte, però, di uno scavo psicologico dei personaggi che divengono dei sorprendenti caratteri universali. Nel caso di Tozzi si è soliti parlare di autobiografia, ma forse comincia ad essere inadeguata anche tale definizione se la rapportiamo, appunto, a quella esplorazione che lambisce il subconscio e che va ben oltre la propria persona per farsi specchio di una realtà in cui l’io narrante si perde e si annulla. Dice bene Marco Marchi – uno dei critici tozziani più accreditati – quando parla della scrittura di “chi si guarda, scrivendo di sé e della propria vita, in uno specchio, diventando presto un’altra cosa: maschere, creature eventuali e inesistenti, insicure proiezioni di miti fatti persona”.
E’ giusto in questo specchio che va a proiettarsi la visionarietà di Tozzi confondendo memoria, immagini, fantasmi, complessi, ansie, frustrazioni. D’altra parte – scriveva Federigo in Due famiglie – “la realtà delle cose dipende dai nostri sentimenti”, e nello scrittore senese c’è un sentimento della realtà che dilata fino a raggiungere una dimensione universale.
Così l’io vive il dramma dello spaesamento, perde i propri tratti, cerca qualcun altro che, per quanto diverso, gli possa somigliare o, meglio ancora, lo proietti a lui identico in uno specchio. Per essere, allo stesso tempo, io ma altro da me. Poiché nel gioco del riflesso sarà possibile sopravvivere a se stessi, pacificarsi, se pur dolorosamente, con il mondo. In una acuta analisi dei personaggi di Tozzi, Romano Luperini evidenzia come: “La mancanza di una sicura identità e il predominante sentimento di inappartenenza inducono i protagonisti tozziani a proiettarsi nel ‘doppio’, quasi per un antico e sempre frustrato bisogno di affetto e riconoscimento”.
Ecco, dunque, come Tozzi abbia siglato il Novecento letterario, fissando (è sempre Marchi ad affermarlo) dei “punti di non ritorno”, sperimentando una scrittura, non a caso definita “crudele”, che potesse rappresentare – ora per simbiosi, ora prendendone le distanze – quel doloroso scandaglio d’anima.