Già verso il II secolo dopo Cristo esisteva in Italia la damnatio ad metalla, la crudele condanna ai lavori forzati in miniere e cave. Come a dire che quel lavoro era da ritenersi punitivo, espiatorio, comunque tremendo. E, se non altro per la fatica che richiede, tale è rimasto fino ai giorni nostri, conservando giustappunto il peso di una pena che dal corpo va a stremare tutto l’essere. Persino i luoghi, paesi, villaggi, case che vicino a miniere e cave sono sorti, paiono, nella loro condivisa umanità, non aver potuto prescindere da quanto una condizione di lavoro rendesse l’esistenza ruvida, scheggiata, essenziale. Quasi che all’azione dello scavo non restasse indenne la vita intera, le sue feriali modalità, i suoi affanni.
Così si presentava anche l’immaginaria ma credibile Sleescale, la cittadina in cui è ambientato il popolare romanzo E le stelle stanno a guardare di Archibald Joseph Cronin, scrittore e medico minerario nel Galles ai primi decenni del Novecento. Tra melodramma (tale è il registro su cui Cronin modella il racconto), realismo, romanticismo e impegno politico, la fittizia Sleescale è geografia di destini, di conflitti morali e sociali, di legittime aspirazioni e sentimenti. La miniera e ciò che ne deriva opera uno scavo pure negli animi, disegna in superficie il reticolo delle relazioni umane, fa esplodere le contraddizioni, brillare le passioni. E’ uno spaccato antropologico.
Non è invece luce di stelle, ma lunare quella della novella pirandelliana (Ciàula scopre la luna) in cui il giovane protagonista, che non ha paura del buio di una zolfara siciliana, ha però terrore dell’esterna oscurità della notte, finché al cospetto della luna il timore volge in lacrime di dolcezza. Lo scrittore siciliano aveva ben presenti le condizioni di sfruttamento e miseria di chi lavorava nelle zolfare (in Ciàula si fa riferimento alla miniera “Taccia Caci” nei pressi di Aragona). Dei minatori vengono colti i caratteri interiori, ed anche nel caso di Pirandello essi divengono come lo specchio del luogo.
Di letteratura militante dobbiamo infine parlare citando il libro I minatori della Maremma (inchiesta, ricerca, empatica vicinanza ai lavoratori delle miniere) scritto da Luciano Bianciardi e Carlo Cassola nel 1956. Documento socio-politico di un’epoca, di una realtà lavorativa e, ancora una volta, storia di paesi e villaggi, di miserie e casi umani. In quelle pagine troviamo, tra le altre cose, il racconto dettagliato della tragedia di Ribolla (tristemente ricordata come la Marcinelle toscana), quando «fra le 8,35 e le 8,45 del 4 maggio 1954, nella sezione Camorra della miniera di Ribolla, si verificò uno scoppio di grisou». Vi morirono 43 persone («tutte le salme che venivano estratte dal fondo della miniera, venivano portate in un’autorimessa»). Come scrivono Bianciardi e Cassola, Ribolla era, allora, «un villaggio sperduto in una breve pianura ondulata sotto le colline di Montemassi e di Roccastrada», era ed è tutt’oggi «un crocevia di tante storie». Perché a fare i luoghi sono le vicende e il lavoro dell’uomo.