Parliamo sempre più spesso di periferie. Nei salotti dei talk show ogni volta che un cruento fatto di cronaca riporta all’attenzione il degrado di zone grigie ai margini delle nostre città o nei programmi dove i borghi italiani fanno da cartoline delle vacanze nel Bel Paese o ancora dinnanzi ai sempre più frequenti disastri naturali che ogni volta ci rammentano quanto sia essenziale il presidio e quindi la cura dei territori.

La globalizzazione e la finanziarizzazione del sistema mondo hanno accentuato le diseguaglianze tra gli esseri umani e tra i luoghi tanto che il rischio vero che si corre è che, ogni giorno ed inesorabilmente, qualcuno diventi periferia di qualcun altro e qualcosa periferia di qualcos’altro.

Quell’uguaglianza sostanziale sancita dall’art.3 della nostra Costituzione appare un miraggio sempre più lontano e quegli ostacoli, di ordine economico e sociale, da rimuovere per garantire il pieno sviluppo della persona umana, sembrano essersi trasformati, in vette impossibili da scalare.

C’è la consapevolezza che si siano create più “Italie” e che le differenze tra di loro si stiano ingigantendo sempre più. Vi è altresì la consapevolezza che le guarentigie ed i contrappesi disegnati attraverso l’architettura costituzionale ed attuati, ahinoi, soltanto in minima parte poi nel corso della storia non siano più in grado di rappresentare la condizione di fatto del paese e l’immagine che scaturisce è l’erculea fatica di frenare un treno in corsa con la forza delle sole mani.

Non esiste più la società dei nostri padri; sbiadita appare la netta e culturale divisione in classi della società del miracolo economico o la questione meridionale da porre in contrasto alla forza travolgente ed industriale del Nord del Paese. Tutto appare molto più sfumato. Ci troviamo di fronte a pochissimi e ricchissimi contro moltissimi poveri in tensione perenne ed artificiosamente procurata tra di loro. Nord e Sud non coniano l’immagine soltanto di uno Stato ma condizioni enormemente diverse tra luoghi che spesso si toccano, distanti tra loro il tempo di una fermata di tram o separati da una montagna o da un ponte.

Non bastano più convegni, buone intenzioni, idee a spot di architetti celebri piuttosto che mance o liberalità che cambiano nome con il cambiare dei governi. Serve una rivoluzione culturale e strutturale che contenga la desolazione e freni la disillusione restituendo la convinzione che idee, lavoro e visione possano cambiare le sorti della vita di un uomo o di un luogo e che non esista un destino già scritto.

C’è bisogno di rendere appetibile e vantaggioso vivere e lavorare in luoghi ove, ad oggi, per scelte o per abbandono vivere non è vantaggioso e lavorare è praticamente impossibile. La riconversione di questi luoghi, il loro ricongiungimento al Paese significherebbe la rimozione, passo dopo passo, di quegli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana nel contesto in cui ha deciso di vivere e di risiedere.

Lo dobbiamo al futuro del nostro pianeta dove contenere l’inurbamento selvaggio e gestire una seria distribuzione demografica sarà determinante per la sopravvivenza della specie umana. Chi decide di resistere in periferia fa un regalo enorme a chi popola i grandi agglomerati urbani ed al Paese tutto. Il gigantismo, unitamente alle privatizzazioni, che ha permeato le scelte nella gestione dei servizi pubblici locali e nel governo dei territori ha fallito inesorabilmente esasperando ancor più le differenze tra centro e periferia.

Dobbiamo superare l’idea che la periferia sia un’eccezione, una devianza rispetto al normale andamento delle cose; e perciò superare l’idea di strumenti eccezionali, come le zone franche o economiche speciali, al fine di concepire un piano strutturale e permanente per le periferie, un new deal che elabori condizioni vantaggiose per l’insediamento di nuove iniziative economiche e nuove residenzialità nei luoghi del disagio, che preservi, agevoli e tuteli le realtà imprenditoriali esistenti, attraverso agevolazioni fiscali e semplificazioni amministrative, che immagini una defiscalizzazione ed una progressività fiscale non solo in funzione del reddito ma soprattutto in virtù dei servizi che lo Stato offre ma più spesso non offre in alcune zone d’Italia e che relegano i cittadini ad una condizione di inferiorità e di svantaggio rispetto ad altri cittadini. Senza dimenticare, poi, una vera legge sui piccoli comuni, i veri protagonisti del governo delle periferie, al fine di liberarli dagli inutili orpelli legislativi e dalla piovra tentacolare della burocrazia che ne rende praticamente la vita impossibile e ne limita, enormemente, l’agire in luoghi ove, quest’ultimi, rappresentano l’unico ed il solo presidio dello Stato sul territorio.

Da questi capisaldi potrebbe erigersi la rivoluzione strutturale e culturale delle periferie d’Italia al fine di tendere una mano a chi al momento è rimasto indietro e per non abbandonare definitivamente alla scomparsa o peggio ancora al degrado pezzi di Paese e cittadini la cui colpa non può esser certo quello di essere nati o di vivere nel posto sbagliato.