Di fronte al bisogno di superare le disparità territoriali, che sono diventate anche disuguaglianze sociali, l’attuazione del Pnrr sta andando in direzione opposta, destinando oltre un miliardo di euro al cosiddetto piano ‘Attrattività dei Borghi’ sul quale stanno piovendo critiche da tutte le parti, specialmente dagli stessi enti locali che dovrebbero beneficiarne. Il rischio è di aumentare le disuguaglianze, anziché attenuarle.

Tutto è centrato sul borgo. Ma il borgo esprime una visione parziale: è solo una parte, una definizione retorica di chi guarda dall’esterno, un semplice contenitore; mentre il paese è tutto, è comunità, territorio, contenuto; il posto dove tornare o dove restare, non solo il luogo da cui andare via o venirci a passare il fine settimana. La questione non è solo terminologica.

La cosiddetta rivitalizzazione dei borghi riflette una visione che ragiona a sistema invariato, cioè tende a riproporre per le zone interne lo stesso modello che le ha marginalizzate, cioè quello della competizione, della crescita economica e dei consumi, seppure ammantato dalle parole magiche che percorrono il Pnrr: sostenibilità, transizione ecologica, digitalizzazione.

Nella sua attuazione pare che si sia presi innanzitutto dalla necessità di spendere e di spendere presto, più che dalla elaborazione di una vera e propria strategia di intervento, da un programma calato dall’alto piuttosto che da una pianificazione partecipata dal basso. Il cosiddetto “bando borghi”, infatti, è un avviso pubblico che chiama i Comuni sotto i 5.000 abitanti a presentare progetti economicamente consistenti, alla svelta (entro il 15 marzo), quindi difficilmente agganciati a strategie coerenti di rinascita territoriale e a metodologie partecipative delle comunità locali. Il miliardo di euro è ripartito in due linee.

Una linea A riservata a 21 progetti pilota per la rigenerazione culturale, sociale ed economica di un borgo individuato da ciascuna regione o provincia autonoma (progetti da 20 milioni di euro ciascuno); una linea B per progetti locali di rigenerazione culturale e sociale di piccoli borghi storici (progetti fino a 1,6 milioni). Appare ovvio che la maggior parte delle risorse (linea A) sarà attribuita a pochi luoghi, scelti dalle rispettive regioni, secondo la logica di creare “eccellenze” e lasciare tutto il resto nelle condizioni in cui si trova. Non è creando punti di eccellenza (ammesso che ci si riesca) che si attenuano le disuguaglianze territoriali e sociali. Ha ragione il presidente Uncem Marco Bussone che anche su agenziaimpress.it ha parlato di una “lotteria da azzerare”.

Piccoli Comuni, il bando del Pnrr fa discutere: “No a un progetto esclusivo”

Intanto ogni regione si è affrettata a individuare il borgo miracolato. L’avviso è uscito alla vigilia delle vacanze di Natale, i sindaci lo hanno visto in gennaio, la scadenza ministeriale è al 15 marzo, ma le regioni l’hanno generalmente anticipata al 15 febbraio per fare la loro scelta.

Il Pnrr dovrebbe assicurare futuro e benessere al Paese, ma in questa modalità di attuazione manca in sostanza una visione strategica, sociale e ambientale, manca una effettiva partecipazione senza la quale pochi e frettolosi progetti si riveleranno interventi episodici, o addirittura cattedrali nel deserto, non in grado di durare e di alimentare una vera strategia di rinascita, guidati solo dalla logica di portare a casa qualcosa e di creare qualche rara ‘eccellenza’ per poi poter dire “l’abbiamo fatto”.  Il bando prescrive che gli interventi finanziati dovranno essere conclusi entro il 2026: come faccia un Comune piccolo o piccolissimo a spendere bene 20 milioni in soli 4 anni resta un altro mistero da svelare.

La generalità dei comuni delle aree interne avrebbe bisogno di qualche decina di migliaia di euro per vivere e per funzionare, per i servizi fondamentali – sanità, scuola, mobilità – per mantenere una strada, una linea di trasporto locale, per incentivare l’agricoltura, la cultura, il paesaggio. Invece si è deciso di dare 20 milioni a un comune solo, magari per creare una eccellenza che nasconda il persistente declino dell’Italia rurale.

 

Rossano Pazzagli è Docente di Storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise. Vicepresidente della Società dei Territorialisti