La mattina dell’11 gennaio 1999 fuori dalla mia finestra le cose stavano immobili nell’arrendevolezza dell’inverno. Liberi o no di crederci, mi ero svegliato con in testa quel frammento di canzone di Fabrizio De André che dice: “Pensavo è bello che dove finiscono le mie dita debba in qualche modo incominciare una chitarra”. Appresi poco dopo da un giornale radio che il cantautore era morto durante la notte.
Il necrologio intimo che ciascuno formula quando resti colpito dalle morti altrui, quella volta non fu, almeno nel mio caso, il consueto… con lui scompare… e giù a seguire il rosario di ciò che ormai si avverte perduto anche di se stessi. Mi si scuserà l’artificio retorico, ma non provai il senso di una fine, quanto, piuttosto, l’inizio di una tracimante nostalgia di futuro. Ovvero non fu (e continua a non essere) il rimpianto del “come eravamo”, ma di ciò che, ahimè, non siamo riusciti ad essere.
Evitai, perciò, di repertoriare le cose che in me morivano con De André (molte, per la verità) cogliendo, invece, uno spazio di discrimine tra gli anni della vita che avevano avuto come colonna sonora le stupende canzoni di Fabrizio e un presente faticosissimo, indecifrabile, di necessità pragmatico.
Al di là di quella linea stava la con/fusione di ideali, ideologie, terzomondismi, amori e rivoluzioni (erano gli anni Sessanta e Settanta) dove in ragione di una nuova “percezione” del mondo (diciamo pure di una “condizione emotiva” tutta particolare) riuscivamo a far convergere i più disparati pensieri verso il bene comune. Rabbia, poesia, istanza sociale e teneri sentimenti, insomma, per tutte le bocche di Rosa, i “quartieri dove il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, le tante guerre di Piero, per gli ultimi, i diversi, per chi ai margini se ne stava. Ironia e condanna per l’ipocrisia di vecchi professori, di “giudici eletti”, di quanti “sanno a memoria il diritto divino e scordano sempre il perdono”.
Al di qua c’era un desertificato oggi e il mio (nostro) spaesamento. Persisteva, però – eccome forte – lo stesso sussulto anarchico di quarant’anni verso una politica mediocre e solo in funzione della propria conservazione, la medesima rabbiosa insofferenza per le troppe ingiustizie, per una televisione beota e asservita.
Questo, la mattina dell’11 gennaio 1999, pensò forte un cinquantenne disperato “se non del tutto giusto / quasi niente sbagliato, / cercando il luogo idoneo / adatto al suo tritolo, / insomma il posto degno / d’un bombarolo”. E fu davvero uno scoppio, sordo ma devastante come è quello della commozione.

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