Si può essere talmente sprovveduti (ideologicamente) rispetto al mondo da ritenere assurda qualsiasi guerra. A questo enclave di ingenui (cui apparteniamo) fu a suo tempo di consolazione la lettura del romanzo-capolavoro di Joseph Roth, La marcia di Radetzky, dove è detto che persino l’eroico generale austriaco amava sì le sfolgoranti e simmetriche parate militari, ma assai meno le guerre, perché sapeva che anche quando pare di vincerle, in realtà “si perdono”; ovvero, troppo alto è il prezzo da pagare, troppo incerte le conseguenze. In uno splendido passaggio del romanzo è scritto: “Allora, prima della Grande Guerra, […] non era ancora indifferente se un uomo viveva o moriva. Se uno era cancellato dalla schiera dei terrestri non veniva subito un altro al suo posto per far dimenticare il morto ma, dove quello mancava, restava un vuoto, e i vicini come i lontani testimoni del declino di un mondo ammutolivano ogni qual volta vedevano questo vuoto”.
Tale è dunque il nostro sconforto dinanzi ai guerreggiamenti (qualsiasi essi siano) che quasi ci disturba prendere atto di quali belle pagine letterarie la guerra abbia ispirato, contribuendo, anche senza volerlo, a creare una mistificazione, un’epica del conflitto armato. Ma tant’è. Si comincia con l’Iliade per proseguire, attraverso le molteplici odissee della storia, fin dentro lo sconquasso del Vietnam. Del resto gli scrittori fanno il loro mestiere: raccontare. E non è da escludere che sia questo l’unico modo per “sfatare” veramente la guerra e denunciarne gli orrori.
Tornano a mente, in proposito, i terribili versi di Clemente Rebora nella poesia Viatico, allorché vedere il compagno di trincea agonizzante, ridotto tronco senza gambe, fa supplicare l’affrettarsi della morte per “la pietà di noi rimasti”, e dunque “lasciaci in silenzio / grazie, fratello”. In una analoga situazione, Ungaretti constaterà che “non sono mai stato / tanto / attaccato alla vita”. Così palpabile è, infatti, il senso di precarietà vissuto al fronte che il poeta scriverà ancora: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”. E chi di noi non si commuove nel leggere la ‘ingenua’ poesia di Corrado Alvaro in cui immagina di dover chiedere A un compagno di avvertire la famiglia della sua morte in battaglia: “Di’ loro che la mia fronte / è stata bruciata là dove / mi baciavano, e che fu lieve / il colpo, che mi parve fosse / il bacio di tutte le sere”.
In conclusione. Se le guerre sono davvero ineludibili, resti per lo meno il segno dell’inchiostro ad annotarne il paradosso, il disincanto, un sentimento che da esse ci dissoci.