La platea di coloro che guardarono con interesse alle prime “Leopolde” fu molto più ampia di quella dei diretti partecipanti. Finalmente qualcosa di nuovo, giovane, dinamico… frizzante toh!, si stava muovendo sul fronte del centrosinistra, in un panorama politico reso asfittico dal fallimento dell’esperienza veltroniana di Partito Democratico.
Fallimento che sembrava aver sospeso a tempo indeterminato un processo di rinnovamento che fino a poco prima sembrava invece destinato a sconvolgere gli assetti politici. La Leopolda appariva a molti come una possibile ripartenza, o perlomeno qualcosa a cui rivolgere uno speranzoso “vediamo un po’ che fanno”. Molto interesse suscitarono soprattutto le nuovo trovate comunicative di quegli eventi, le modalità di svolgimento, che toglievano via un bel po’ di muffa ai tradizionali eventi di partito.
Ma oggi che la Leopolda è andata in paradiso occupando la stanza dei bottoni, ci accorgiamo che quelle trovate comunicative sono diventate sostanza di un’azione di Governo, traducendosi in una precisa visione della società, delle forme di rappresentanza e dei rapporti politici. Ci appaiono tanto apprezzabili come innovative modalità di comunicazione politica, quanto inquietanti nel momento in cui si trasformano in sostanza politica. Come un dipinto dal soggetto spaventoso che prenda vita, affascinando e conquistando lo spettatore finché rimane sulla tela, ma poi terrorrizzandolo quando diventa reale.
Così quegli interventi sul palco della Leopolda, fatti da persone senza alcuna connessione tra loro, che salgono lì sopra senza alcun ordine precostituito, a parlare a nome di se stesse e di nessun altro, per raccontare il loro talento o la loro esperienza individuale e chiedere ciò che servirebbe per migliorare la loro vita privata, diventano la rappresentazione scenica di una visione politica della società come appunto “società” e non “comunità”, in quanto sommatoria di esperienze e interessi individuali. Una visione tipica della tradizione liberale e non di quella democratica, in cui l’interesse generale diventa perseguimento della maggiore quantità di interessi individuali possibili, e non un valore che trovi nella comunità la sua ragione d’essere e che prevalga concettualmente proprio sugli interessi individuali.
Lo stesso vale per il fatto che chi sale su quel palco non è quasi mai portatore di valori universali che prescindano dalla propria esperienza individuale. Non sale il commerciante a parlarci di quanto sia importante il rispetto dell’ambiente: il commerciante ci parla dell’importanza del commercio. Non sale l’artigiano a parlarci del valore della cultura: l’artigiano ci parla del suo lavoro e di cosa servirebbe per aumentare le sue vendite. Ognuno è portatore di legittimi interessi, ma non c’è quell’astrazione, quel riferimento al generale, tipici della militanza politica, che consentono di farsi portatori di valori universali, intellettualmente elaborati. E di nuovo ciò diventa il preludio di una visione dell’azione di governo, e anche della rappresentanza politica, tutta basata sulla cura degli interessi e sul consenso, piuttosto che sulla volontà di affermare valori e di educare i cittadini al loro rispetto. Del tutto coerente con il progetto di un partito elettorale, o peggio comitato elettorale, che abbandona qualsiasi vocazione pedagogica o di testimonianza valoriale.
Quando poi gli intervenuti scendono dal palco e si mescolano tra il pubblico perdono la loro soggettività politica che solo la presenza in quel palco aveva conferito loro (guai, infatti, ad ospitare politici sulla scena), e non diventano altro che la massa alla quale il Leader, che nel frattempo ha occupato sempre la scena, si rivolge direttamente, senza intermediari e parlando indistintamente a tutti. Magari chiamando all’improvviso qualcuno per nome, come fanno i guaritori televisivi quando fanno alzare dal pubblico un apparentemente ignaro malato, predestinato a ricevere il miracolo.
Tra il pubblico-massa ed il Leader non c’è niente altro, anzi sono tanto vicini che questi si muove sul palco, cerca il contatto, offre tutto se stesso, anima e corpo, e si attende il ritorno dalla massa. Feedback reciproci di emozioni. Ma senza niente in mezzo. E di qui, traslando sull’azione di governo, lèggi il non aver bisogno dei corpi intermedi, dei sindacati, delle associazioni di categoria, ma in fondo nemmeno del partito stesso. Tutte dimensioni viste come uno schermo, inutile diaframma che interrompe il flusso emozionale tra Lui ed il suo popolo, e conseguentemente un freno all’azione di governo.
Un Leader che alla Leopolda non fonda il suo intervento conclusivo sull’analisi delle istanze emerse, né tantomeno sulle soluzioni possibili, perché non ne ha bisogno, perché Lui è lì per incarnare, per essere la materializzazione vivente di quel mondo che è sembrato scaturire dagli interventi susseguitisi durante la giornata. Non sale sul palco per dire “io vi darò” ciò che mi avete chiesto, bensì per dire “io sono” ciò che voi avete disegnato, costruito con le vostre parole, con i vostri interventi.
Interventi che se visti analiticamente mostrerebbero spesso anche inconciliabilità, interessi e visioni in conflitto tra loro. Ma qui scatta la capacità del Leader di mostrare tutto come apparentemente conciliabile, come riconducibile ad un’unità dentro la quale ci stia ogni cosa ed il suo contrario. Di qui la necessità da parte del Leader di passare spregiudicatamente da una tesi all’altra nascondendo le contraddizioni, o quando possibile, facendone addirittura valore, attraverso la rivendicazione di un approccio pragmatico alle questioni piuttosto che assoluto.
Il Leader non interloquisce con il pubblico della Leopolda, e non è da esso giudicabile, per il semplice motivo che egli, insieme a tutti gli altri, pur se in cima alla piramide umana, è la Leopolda stessa. Trattandosi di una piramide umana il Leader sceglie di avere accanto a sé, come suoi collaboratori, solo persone che lo sostengono, che agevolano la sua risalita verso la vetta e che si astengono dall’assumere iniziative autonome.
Non vuole altre leadership, pur se parziali e magari territoriali, che possano limitarlo, o magari potenzialmente mettere in discussione la sua. Costruisce verticalità dove può imporre linee di comando interne che dal locale arrivino al nazionale convergendo su di lui e, attraverso lo svuotamento di potere degli organismi del partito, impone nei fatti orizzontalità e frammentazione al di fuori di quel rapporto gerarchico; cosicché nessuno rappresenti poco più che se stesso, nessuno conti davvero più di nessun altro e tutti contino quanto ogni altro, ovvero niente rispetto a lui.
Una Leopolda, infine, che include chi accetta di farsi parte del meccanismo ed esclude gli altri, nell’antinomia amico-nemico, che traslata nella dimensione di governo diventa “noi siamo l’Italia delle riforme, l’Italia che vuole farcela, voi siete quelli che non vogliono bene al Paese”. Tra il Renzi leader sul palco della Leopolda e quello sulla poltrona di Palazzo Chigi non c’è alcuno iato, sono un’unica frase di un racconto politico.
Ma tutto questo, per funzionare, ha bisogno di un continuo effetto stupefacente, di una percezione iperbolica, di un senso di eccezionalità. Dunque, allo stesso modo in cui i giorni della Leopolda devono essere fatti percepire come un momento al di sopra dell’ordinario, inedito, foriero di conseguenze determinanti (la scelta del nome “Big Bang” credo fughi ogni dubbio sulle intenzioni), così nell’azione di governo ogni atto deve essere fatto percepire come epocale, come rivoluzionario. Riforme come quella della scuola o del lavoro o della pubblica amministrazione che, a prescindere dal merito, ognuno dei governi avvicendatisi in precedenza ha già affrontato e che quelli che verranno in futuro altrettanto faranno, vengono invece presentate come uniche, irripetibili, come una soluzione di continuità politica dentro un momento storico diverso da ogni altro.
Allo stesso modo in cui tutti si sono sentiti protagonisti alla Leopolda, alcuni in quanto visibili sul palco, assegnatari della loro parola da sviluppare all’interno del lessico leopoldino, altri in quanto comunque spettatori di un evento eccezionale, ma in realtà tutti solo ingranaggi di un meccanismo ben studiato e organizzato; così i cittadini vengono fatti sentire protagonisti, o comunque spettatori privilegiati, di svolte epocali, anch’essi investiti del compito di diffondere, come un mantra, le parole del governo: la volta buona, futuro, gufi, piagnisteo. E nel caso brandire parole come spade, a difesa della rivoluzione, come nel famigerato caso dello “state sereni”.
Vocaboli sottratti al lessico comune e sviliti a parole d’ordine militari, riconoscibili dallo stemma dell’hastag, che traccia i confini di una comunità virtuale che si autoalimenta delle proprie rappresentazioni. La Leopolda continuerà a girare sfavillante, fino a quando una nuova giostra non la farà apparire superata ed obsoleta, come nuove vorticose montagne russe col brucomela.