Tempi difficili per l’arte della scrittura, ormai ridotta alla mendicità. Oggi a prevalere è, infatti, la lingua nevrotica e contratta delle e-mail, degli sms, dei luoghi comuni. Una sputacchiante dislessia che dice, comunica, ammicca graficamente, ma non racconta nulla.
Per fortuna (?) in questa crescente desertificazione della parola scritta resistono gli aspiranti scrittori. Coloro, cioè, che della scrittura hanno fatto una ragione di vita, o per meglio dire il vezzo sragionato del proprio narciso, del voler comunicare agli altri la pena di esistere (ignorata, come è, dal circostante consorzio degli umani).
Ecco allora, alla bisogna, scuole, manuali, kit-pronto-uso di scrittura creativa che insegnano a mutare piccole o grandi disperazioni (l’esigenza di farsi notare è comunque una disperazione) in vicende universali. Perché – e qui il discorso potrebbe farsi serio – narrare è riuscire a trasformare in storia di tutti ciò che quasi sempre comincia con il puro autobiografismo.
Del resto, avverte Roberto Cotroneo nel suo Manuale di scrittura creativa, se desideriamo scrivere è “per sedurre il mondo” e questo ambizioso obiettivo sembrerebbe trovare sostegno anche in un autore del peso di Vincenzo Cerami (vedasi i Consigli a un giovane scrittore), che spiega, appunto, come raccontare sia “in qualche modo porre domande difficili al mondo”.
E’ pur vero che se la gran parte degli aspiranti scrittori avesse letto anche solo una ventina di titoli fondamentali della storia della letteratura, rinuncerebbe in partenza a voler “sedurre il mondo” in tal guisa, scoprendo che altri lo hanno già fatto a livelli talmente sublimi e definitivi da far sentire chiunque terribilmente inadeguato a certe repliche.
Però siamo sinceri. Se si smettesse in assoluto di scrivere, accadrebbe che anche i venti titoli basilari della letteratura poco prima evocati, sarebbero destinati a rimanere per sempre così limitati. Per non dire, poi, come in una devastante atrofia della parola scritta, potrebbe morire definitivamente il racconto del mondo. Perciò arriviamo a un compromesso. Stabiliamo in partenza, con l’ironia e la spregiudicatezza di Giorgio Manganelli, che “lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile” (La letteratura come menzogna). Dopo di che, coloro che ne avessero desiderio e magari talento sono vivamente pregati di non rinunciare a questo inutile esercizio.