Giunsi alla lettura del Corano per interposta poesia, allorché a un mercatino dell’usato incappai nell’edizione italiana (Laterza, 1949) de Il collare della colomba di Ibn Hazm, poeta arabo andaluso vissuto tra il 994 e il 1064. Un capolavoro della letteratura araba medievale in cui dolori e piaceri dell’amore trovano una tensione lirica carica di sensualità, e anche qualcosa di più. Da quelle pagine mi avventurai nella poesia dei Sufi, in un universo letterario che si dice non fine a se stesso, ma vòlto alla ricerca del Vero. Poesia dell’indicibile, dell’ebbrezza (jadhb, attrazione nel Divino) e che conduce laddove “il sale, lo zucchero o il miele disciolti nell’acqua diventano l’acqua”. E approdai così anche al Corano, a certi folgoranti versetti attraversati dal fremito della Rivelazione, alla parola di Allah trasmessa a Maometto in “chiara lingua araba”. Parole – come si sa – non destinate alla lettura, ma affidate a una salmodiata recitazione che da pause, respiri e modulazioni sapientemente dosati, faccia scaturire le molteplici suggestioni del testo.
A noi “infedeli” (ma fedeli alla parola poetica) affascinano sopratutto le cosiddette sure “meccane” (nate al tempo della prima impetuosa predicazione del Profeta) così ricche di ritmo, di slanci mistici, immaginose, criptiche. Decisamente meno ci avvincono le pedanti sure “medinesi” in cui la poesia cede il passo alla retorica predicatoria, alle sciatte liste dei precetti. Ma del resto i musulmani sono chiari: il Corano non è né poesia né prosa: è parola intraducibile. E quanto ai poeti, si sappia che “sono i traviati che li seguono”. Anche se poi il Profeta Muhammad dirà che: “Allah ha dei tesori sotto il Suo trono, le cui chiavi si trovano sotto la lingua dei poeti”.
Certo è che la lingua del Corano ha rappresentato per il mondo arabo un vero e proprio prototipo letterario. Un modello che anche sugli occidentali ha esercitato forti attrattive. Verrebbe in mente, al proposito, Johann Wolfang Goethe con la sua (e di Marianne Willemer) opera in versi West-östlicher Divan (“Il divano occidentale orientale”). Pagine attraversate da una brezza levantina che incrocia, appunto, l’Occidente. Ed è – per dirla con Goethe – “incondizionato abbandono all’insondabile volontà di Dio…, inclinazione che ondeggia tra due mondi, tutto il reale spiegato e risolto nel simbolo”. Visto il frangente storico non sarebbe male che su quel divano potesse sostare il mondo. Giusto il tempo per reinventarsi un Dio liberato da religioni che paradossalmente lo negano ogni qualvolta (malamente) lo proclamano.