Ci sono regalie che creano sgomento, anziché renderti grato della generosa munificenza. È il caso della donazione che una misteriosa figura (veneta?) di mecenate – si fa chiamare Graziella, forse è uno pseudonimo – intende destinare al Comune di Siena. Sembra che i giochi sian fatti, gli accordi presi e manchi solo l’approvazione consiliare in calendario per il prossimo lunedì. Si tratta di 478 opere di autori italiani, che rappresentano un ampio panorama della produzione del secondo Novecento e di alcuni dei movimenti che l’hanno contrassegnato. Assenti in blocco esponenti della Transavanguardia, vi compaiono nomi riconducibili al Movimento spaziale, altri all’informale, altri ancora al concettuale, al neoconcretismo e via dicendo. L’inventario è lungo e molto rimaneggiato rispetto a quello offerto in prima battuta: sono sparite, ad esempio, circa 70 sculture.
Vicenda nata nel 2017 L’inizio della vicenda che starebbe per chiudersi risale al 2017. L’avviò l’ex dirigente a contratto, il dinamico Daniele Pitteri, ma non riuscì a condurla in porto. Ora il sindaco De Mossi ha riaperto il dossier e pare che la faccenda sia al rush finale. Sfumata la prospettiva di una sistemazione della Pinacoteca nazionale come fulcro identitario degli spazi dell’antico xenodochio, non ancora precisata l’autonoma fisionomia giuridica di una realtà così importante, il labirintico Santa Maria della Scala ha bisogno di un progetto (work in progress) che con chiarezza gli conferisca funzioni alte e riconoscibili. Purtroppo troppo treni sono stati persi. Basti ricordare che, per i ritardi accumulati e i dinieghi ministeriali, non è entrato nella lista dei musei di rilievo nazionale: è un luogo senza personalità giuridica e senza autonomia. È riemersa da poco la volontà di farne una fondazione mista, pubblica e privata, ma se ne parlerà a settembre. Ed ecco apparire il miracolo della donazione anonima. È mortificante constatare che, invece di partire da una visione generale, ci si sia affannati a cercare sponsor e collezionisti come si dovesse riempire un vuoto da usare a piacimento per organizzare mostre, eventi agrifood incontri in una sala battezzata auditorium. C’è da augurarsi che si riprende con calma il filo del discorso e si dipani con buonsenso. Sarebbe stolto opporre un rifiuto di principio alla donazione che fa discutere.
Inaccettabili le ferree clausole Ma appaiono inaccettabili, se non impraticabili, talune ferree clausole che l’accompagnano. Nessuno si scandalizzerebbe se, insieme ad un arricchito museo di sé e di opere strettamente legate alla città e alla committenza del Santa Maria, si snodassero laboratori e stanze aperte alla sperimentazione e a transitorie esibizioni di creatività contemporanea. Anzi: è la tesi da sempre sostenuta da chi ha l’ha immaginato anche quale attivo incrocio di ricerche, esperienze e confronti di respiro internazionale. Ma occupare in permanenza non so quanti metri quadrati dell’attuale complesso con i tutti i manufatti proposti potrebbe cancellare qualsiasi congrua e organica finalizzazione. E è scorretto estrarre sbandierare solo i nomi più conosciuti ignorando il valore documentario di prove o abbozzi o carte magari di minimo formato: materiale certo suscettibile di studio e di conservazione. Ma, come si fa ormai ovunque – viene in mente l’eccitante Madre di Napoli –, è essenziale distinguere tra archivio, deposito, e mirate esposizioni a turno. “L’Inchiostro a tela” di Vincenzo Accame – n.1 dell’inventario – non può avere lo stesso trattamento di un testo quattrocentesco intrinseco all’ambiente storico da cui è nato. Giù giù fino alla “Carta su tela” di Giuseppe Zigaina (n. 478). Unitamente a dubbi metodologici insorgono quesiti più consistenti. È davvero ricavabile (o costruibile) un’articolazione del Santa Maria da adibire allo scopo? Tanto di cappello a Emilio Vedova e Roberto Crippa, a Gianni Dova coi suoi minuti inchiostri colorati e alle delicate tempere di Bice Lazzari, ma come collocarli in un percorso fisso e calibrato? Non sarebbe preferibile individuare un’ubicazione radicalmente nuova? Da non trascurare è l’esame preliminare della raccolta con le procedure di rito: il valore che le viene attribuito nella delibera di Giunta (1.751.700 euro) è risibile per una sequenza che annovera Turcato e Fontana, Bonalumi e Adami. Anche se poi si va a verificare e si scopre che spesso son pezzi di prova, pastellini o schizzi a matita: roba, appunto, da custodire in archivi. Un’altra perla è la scelta del curatore (e della sua remunerazione): Alberto Zanchetta avrà ottime qualità, ma paracadutare un docente – oggi direttore del museo di Lissone – in una città universitaria che dovrebbe promuovere sue giovani energie è strano. Sarebbe utile riflettere con franchezza, al di là di ogni posizione pregiudiziale di schieramento, su questi punti, non banali, prima di dire: sì, grazie, Graziella! Altrimenti il dono rischia di trasformarsi in una pietra tombale, per sempre ostativa ad un serio riesame del futuro del Santa Maria. Prima il progetto, poi le scelte ad esso coerenti. È troppo pretendere?
Dal “Corriere Fiorentino”, 26 luglio 2019