di Lorenzo Brenci
Il pomeriggio del 16 agosto del 1974 affacciati alla finestra dell’abitazione del notaio Guiso, dalle parti della mossa, Roman Polanski e Franco Zeffirelli attendevano insieme l’ora fatidica, le maledette sette, quando i cavalli escono dall’Entrone. Di lì a poco alla contrada vittoriosa sarebbe stato consegnato il cencio di Ugo Attardi, quello della Madonna nera, quel volto da regina nubiana dipinto con il tratto dei grandi, che noi profani distinguiamo con l’istinto.
Che poi insieme si fa per dire perché in realtà Polanski detestava Zeffirelli con il suo codazzo e perciò non lo volle accanto a sé. L’aneddoto lo raccontava Luca Verdone, qualche sera fa, in occasione dell’iniziativa commemorativa del padre, Mario Verdone, organizzata dalla Contrada della Selva. Aggiungendo che Polansky, particolarmente interessato alle contrade dalla simbologia più oscura, the owl, the dragoon, predisse il trionfo della forrest. Poi puntualmente avvenuto, lo ricordo con un accenno di vanità contradaiola, la galoppata solitaria di Aceto su Panezio, entrambi all’apice della loro carriera paliesca. Ma che Siena era quella? Quanto distante da quella di adesso?
Me lo sono chiesto per tutto il corso della serata a partire da questo aneddoto particolarmente emblematico che ci racconta di un’altra città. Un intellettuale senese di antica nobiltà come il Guiso, due registi di grande fama internazionale, e perfino Attardi pittore, romanziere e scultore. Tutti coinvolti seppure a diverso titolo da Siena e in quel Palio, luogo dell’anima e quinta della rappresentazione più umana, quella della passione.
Che poi, sia detto con celia, al giovane Luca Verdone andò anche bene, meglio Polanski, il polacco dannato, che il secolare nemico fiorentino che, di certo, non aveva predetto un bel niente anche perché una contrada viola non esiste.
Che città era quella dove crebbe Mario, tutta dentro le mura, più antica e più povera, dove si cresceva e si studiava accanto a personalità illustri, dal maestro Cesare Brandi al pittore Sadun. Oppure la Siena città “austera”, così definita dal fratello più famoso, Carlo, quando la raggiungeva in auto da Roma, attraverso i borghi sulla Cassia, entrando dalla Porta Romana?
Io questo non lo so, in realtà l’ho solo sfiorata, ricordo il rione, certo, le botteghe, gli odori, qualche gioco per strada, le strade popolate e i vicoli non proprio profumati, ma ero un bambino, poi già da ragazzo quella città sparì di colpo.
Iniziative come quella per Mario Verdone hanno il merito di renderci qualche suggestione, ma anche spunti per il futuro, ci fanno venire voglia di ricostruire un contesto favorevole, una palestra culturale, un luogo dove si è capaci di accogliere la vita per quello che è, la bellezza delle nostre strade e la polvere del tufo sollevata da una corsa frenetica dove vince soltanto uno e gli altri sono sconfitti.
L’amico Giovanni Mazzini, che nel corso della serata ha prestato la sua poliedrica voce a Silvio Gigli, ha concluso come di prammatica la telecronaca del Palio del ’53, quando la Selva tornò a vincere dopo 34 anni di digiuno, con “Siena trionfa immortale”.
Ecco, basterebbe ripartire da una consapevolezza ragionata del passato, anche quello più recente e disgraziato, e del presente, in proposito mi sovviene il paragone di Carlo Verdone fra Siena e la sua Roma a proposito del decoro urbano, impietoso per la capitale. Serve per tornare a riconoscersi, perché una città soffocata dall’astio e dalla nostalgia non serve a nessuno e ai Senesi prima di tutti.