C’è qualcosa che non torna. Abbiamo un ordinamento giuridico tacciato per anni di ipertrofia legislativa (eccesso di legislazione, troppe e confuse leggi); un sistema istituzionale in cui l’iniziativa per la formazione delle leggi è pressoché esclusivamente governativa ed avviene a colpi di rapide azioni a tre tocchi: decreto legge, legge di conversione, fiducia, con un Parlamento di fatto esautorato e ridotto a ratificare i programmi dell’esecutivo.
Insomma, troppe leggi (ricordate i roghi padani in pubblica piazza?) e con un esecutivo che la fa da padrone nella loro approvazione.
Ecco, dicevo, c’e qualcosa che non torna se di fronte a tutto ciò la soluzione istituzionale ai nostri mali la andiamo a cercare in un sistema parlamentare che garantisca maggiore velocità nello sfornare leggi (due rami del Parlamento intralciano e dunque ne facciamo uno vero e uno dépendance per consiglieri regionali) e in un rafforzamento di fatto del potere dell’esecutivo (con leader “italicum” iperdecisionista e parlamentari al suo servizio).
Non è che, invece, il difetto sta nel manico? Cioè non viene il dubbio che il problema non sia lo strumento di attuazione delle volontà politiche, bensì l’incapacità della classe politica di dare risposte adeguate ad un mondo trasformato e sconquassato dalla globalizzazione?
E, dunque, non desta preoccupazione che ad una politica che spara soluzioni fuori obiettivo da anni, senza mai inquadrare davvero il problema di una società che ha cambiato i suoi connotati di base, diamo in mano il bazooka sperando che sia più efficace della pistola?
Già un’altra volta nella nostra storia confondemmo una crisi di rappresentanza e un’incapacità di lettura delle evoluzioni sociali, con una presunta inadeguatezza dei meccanismi istituzionali. Accadde quando all’inizio del XX secolo l’avvento della società di massa e l’incapacità della classe politica liberale di interpretare le nuove esigenze di rappresentanza delle classi popolari, fu invece confusa con l’inadeguatezza dei sistemi parlamentari a rispondere ai nuovi bisogni emergenti da una società che andava sempre più veloce.
Una classe politica liberale protagonista del processo di unificazione e guida nei primi decenni di storia unitaria, che stava ormai abdicando alla sua missione storica, fu travolta dalla modernità.
Cosicché dall’antiparlamentarismo (sostenuto anche in quel caso da studiosi di rango come Mosca e Pareto), dalla polemica contro i partiti, un passo alla volta si arrivò alla teorizzazione del “partito unico”, del partito che sintetizzava in sé l’intera nazione e che alla fine si faceva Stato esso stesso.
Ben me ne guardo dal dire che corriamo rischi analoghi: pretestuoso, fuori luogo, anacronistico e anche irrispettoso evocare quei drammatici anni ogni volta che si vuole criticare qualche riforma istituzionale. Ma allo stesso tempo non sarebbe onesto intellettualmente negare la presenza di alcune analogie con il dibattito odierno.
Suggerisco, dunque, di non dimenticare che noi italiani tendiamo spesso da un lato a farci prendere la mano, dall’altro ad autoassolverci.
Se è vero che la sinistra italiana ha forse ecceduto nel “timore della decisione”, nella celebrazione della collegialità (spesso più feticcio che realtà), è altrettanto vero che adesso dovremmo evitare di andare in visibilio ogni qualvolta che un politologo esalta il furore decisionista e il vigore del leader (oggi va di moda Marc Lazar, un politologo vero e proprio cultore del nostro presidente del Consiglio)
Se è innegabile che riforme istituzionali siano necessarie, e lo siano fin dalla commissione Bozzi del 1983, è altrettanto palese che non possiamo confondere i check and balance propri di ogni Stato liberale, con “lacci e lacciuoli” dai cui quali dover liberare il potere esecutivo per lasciarlo agire senza i necessari contrappesi.
E, infine, se un sistema istituzionale efficente è il presupposto per il buon governo, non può la nostra classe dirigente cullarsi nell’idea, autoassolutoria, che il problema stia solo nell’inadeguatezza degli strumenti atti a tradurre la risposta politica in provvedimenti di governo e legislativi.
Il problema sta anche nella risposta stessa, che è mancata perché è mancata un’adeguata lettura della realtà ed un’elaborazione programmatica in grado di incidere nelle dinamiche sociali ed economiche, e guidare i fenomeni invece che subirli. La politica in Italia e in Europa fatica a comprendere i fenomeni e conseguentemente a fornire risposte e a garantire rappresentanza.
Ci sarebbe bisogno di pensiero e riflessione collettiva e partecipata, non solo di azione e decisione. I partiti servirebbero proprio ad assolvere la prima parte del programma, lasciando la seconda alle istituzioni, al Governo e al Parlamento, in una netta distinzione dei ruoli.
In un contesto come questo i partiti personali, il leaderismo e il decisionismo sfrenato non sono la migliore soluzione, ma solo un modo per stordirsi, inebriati dai fumi del potere (se si arriva a cambiare le parole all’inno di Mameli un po’ “flashati” lo si deve essere per forza), nell’illusione di aver compreso tutto quello che c’era da comprendere.
I partiti in cui uno gioca e gli altri fanno la ola, quelli a prestazione occasionale che si attivano un mese prima delle elezioni, quelli che i convegni e i seminari avrebbero anche un po’ stufato, quelli che devi parlare terra terra perché sennò non ti capiscono, quelli con lo streaming sempre acceso come in un reality, quelli che è tutta una “sfida” manco fosse una giostra medievale, quelli che o sei d’accordo o te ne vai, quelli dove la forma non solo non è sostanza ma rompe anche un po’ le scatole… ecco forse questi partiti qui non sono proprio il massimo per rendere maggiormente intelligibile una realtà che è così tanto articolata da rendersi poco permeabile alla comprensione, e dunque non passibile di essere migliorata nell’interesse dei cittadini.
Non sono certo lo strumento migliore per trovare finalmente una risposta politica che non sia solo: “Seguitemi, la risposta sono io!”