L’alternarsi del tempo e delle sue ricorrenze ci riconduce in questi giorni nei cimiteri, laddove proviamo a instaurare una illusoria continuità materiale fra vita e morte; e di questo malinconico binomio, declinare una parvenza di normalità corredata da simboli, gesti, oggetti, parole. Il tentativo, insomma, è di far assomigliare il più possibile l’al-di-là all’al-di-qua, così da suturare ogni strappo, distanza, nostalgia. Un modo, se non altro, per convincere se stessi che anche qualcosa di noi rimarrà comunque.
Del resto, da sempre, il culto dei morti è cosa che, fino a prova contraria, riguarda i vivi. Gli Etruschi, ad esempio, lo praticavano in grande stile, convinti come erano che i defunti continuassero ad avere una qualche forma di sopravvivenza terrena. Ecco, allora, che la tomba doveva assomigliare a una casa e di essa avere la parvenza della quotidianità con suppellettili, vestiti, oggetti preziosi. Sulle pareti del sepolcro venivano dipinte scene di forte vitalità: banchetti, danze, giochi atletici. Poi, dal V secolo a.C., sotto l’influenza della civiltà greca, il mondo dei defunti si incupisce, cominciò ad essere immaginato pure dalle popolazioni etrusche in un luogo sotterraneo (l’Averno greco, appunto), nel quale le anime trasmigravano scortate da spiriti infernali quali la dea Vanth (dalle grandi ali e reggente una torcia), il demone Charun (con viso deforme e che impugna un grande martello), il demone Tuchulcha (volto di avvoltoio e orecchie d’asino, armato di serpenti).
Se volete vedere una splendida rappresentazione di queste credenze vi suggeriamo di visitare la tomba della “quadriga infernale” recentemente scoperta a Sarteano. Straordinario è lo stato di conservazione degli affreschi e – dicono gli esperti – unica è anche la scena rappresentata. E’ la prima volta, infatti, che si ha un tale “ritratto” di Charun, raffigurato mentre guida una quadriga formata da due leoni e due grifi, rivolto verso l’esterno della tomba dopo aver lasciato il defunto sulla soglia dell’Ade. Il limite dell’Ade è simboleggiato da una porta dipinta oltre la quale è inscenato un banchetto, che allude all’Aldilà, con due personaggi maschili sopra una kline (un letto conviviale): forse una coppia gay o (versione meno pruriginosa) di semplici parenti. Nella camera di fondo è invece dipinto un grande serpente a tre teste, uno di quei mostri che “sicuramente” abitavano l’Ade. Quindi sotto il frontone è collocato il sarcofago di alabastro con l’immagine del defunto disteso sul coperchio.
Per gli etruschi – mutatis mutandis, anche per noi – il culto dei morti era, non di meno, una maniera per ostentare il prestigio e la potenza di una famiglia; così che si costruivano grandi tombe ad imitazione delle proprie case. Tant’è che le necropoli seguono in qualche modo le tipologie abitative delle diverse epoche, come, ad esempio, quelle organizzate in due o tre ambienti affiancati e preceduti da una specie di vestibolo o di corte centrale. A partire dal VI secolo, e per tutto il V, si assiste ad un nuovo impianto planimetrico delle necropoli. Le tombe vengono definite “a dado” e, allineate l’una vicino all’altra, vanno a costituire delle vere e proprie città dei morti con tanto di strade e piazze (ma sono poi così tanto diversi i nostri cimiteri?). All’interno delle tombe vi erano solo due ambienti, all’esterno scalette laterali che portavano alla sommità del dado dove si trovavano altari per il culto. Un cambiamento, questo, che riflette i mutamenti della struttura sociale in cui andava affermandosi un ceto non aristocratico che optava per soluzioni abitative decisamente più modeste.
Le difficoltà che permangono nel comprendere il linguaggio degli Etruschi, non consentono, purtroppo, di poter ricostruire appieno i loro riti funebri. Si deduce dai reperti che la morte di un personaggio importante vedesse la partecipazione di tutta la città. Il giorno della sepoltura un lungo corteo seguiva il defunto dalla sua casa alla tomba di famiglia. Su un carro funebre a quattro ruote la salma procedeva lentamente, accompagnata da sacerdoti, suonatori di flauto, parenti e conoscenti con offerte votive. Litanie, musiche, danze e pianto scandivano il rito fino al momento della sepoltura.
Ecco, nei giorni mesti in cui siamo soliti commemorare i nostri defunti, si è voluto richiamare l’antica progenie etrusca, da cui ad alcuni piace pensare di discendere, per dirci come la morte – in quanto fenomeno estraneo all’originaria natura dell’uomo – abbia incessantemente trovato, attraverso il tempo, figurazioni e miti nello sforzo di volerla spiegare come “passaggio”, talvolta come “prova”, attraverso cui accedere a una condizione diversa ma in continuazione con la vita. La stessa tradizione cristiana opta per questa rappresentazione, se pur proiettata in una dimensione totalmente differente da quella terrena, libera dalla corruttibilità della carne, con l’assunzione di un nuovo corpo “glorioso”. E’ dunque così che si intende risolvere l’angoscia e la crisi connesse con la morte, ribaltandola in una prospettiva “oltre” e “altra”, in un Aldilà individuale e collettivo, in un tempo eterno e spiritualmente immortale.
In epoche più recenti, dinanzi alle balbuzie filosofiche, magari suggestive ma insufficienti a dare risposte compiute al “problema” morte (nonché cloroformizzati dal fatuo vitalismo della società consumistica in cui tutto sembrerebbe acquistabile), si è preferito una rimozione del problema. Non a caso viene delegato l’evento agli ospedali e alle agenzie funebri. E perciò anche il vitalismo cui prima facevamo cenno, risulta, nella sostanza, solamente una nevrosi di morte della vita.
Ebbene, poiché in proposito le risposte saranno sempre parziali e inadeguate, ci sembra di poter concludere che a certe nevrosi sia preferibile, forse, l’immaginifica rappresentazione della morte elaborata dagli Etruschi, con le loro silenziose necropoli a modo e misura di vita. Oppure il conforto triste ma sereno che siamo soliti confinare nei nostri cimiteri – affollati archivi di vita che fu – dove è possibile ascoltare il ronzio di quel perenne interrogativo: avrà davvero un fine la fine? E, chini su questo dubbio, deporre un fiore che ha tutto il tremore del finito e di un sentimento – almeno quello – che vorremmo teneramente infinito.