Sono le terre che a differenza degli uomini non hanno dimenticato, mescolate come sono alle ossa e segnate da troppe agonie. Sono le ombre di chi ha perso la vita e ancora non ha trovato riposo. Sono i confini che la storia ha fatto e disfatto, crimine dopo crimine, tragedia dopo tragedia, senza che una voce sia riuscita a levarsi netta sopra le altre: ma perché tutto questo?
Si può partire da un sacrario di caduti in guerra in cui mancano gli altri morti, quelli che non si capisce perché abbiano combattuto dall’altra parte. Oppure dalla foto di un nonno che non si è mai conosciuto, se non per i ricordi trasmessi di bocca in bocca, e la cui parabola di vita non si allinea a ciò che ci hanno insegnato i manuali a scuola.
E’ così che si può partire per un viaggio che è insieme nel tempo e nello spazio, in ciò che ci appartiene di più intimo e nelle enormi distese della pianura che a Oriente si allarga verso l’Asia. Un viaggio che ha il profumo della malinconia ma anche della cosa ben fatta, secondo giustizia.
Vorrei saper adoperare le mie migliori parole per “Come cavalli che dormono in piedi” di Paolo Rumiz (Feltrinelli), perché sarebbero comunque meritate per quello che ritengo un grande libro sulla guerra e un grande libro di viaggio.
E c’è Trieste, la città di mare che aveva tutto un impero dietro e che ora ha perso anche i treni in grado di collegarla convenientemente con città con cui ha condiviso la storia. Ci sono i triestini che nella Grande Guerra hanno combattuto di là, al servizio di Vienna e del suo imperatore, per ritrovarsi poi senza niente in mano, sudditi di un altro paese che li ha presi come traditori e che, se morti, non ha accolto le loro spoglie. E ci sono le molte storie di questi soldati per cui la guerra non fu il Carso o il Monte Grappa, ma il fronte orientale battuto dai cosacchi e da altri rovesci della storia.
Sono queste storie che Rumiz va a inseguire, in uno splendido viaggio in quella che allora era la Galizia (regione che oggi non sapremmo collocare nella carta geografica, parte di quel mito che è l’impero asburgico), tra la Polonia e Ucraina. Tra conti tra regolare con il passato e un presente che tutto sembra piuttosto che un allievo che ha inteso la lezione.
Interrogativi di ieri e di oggi. Boschi e colline che ancora esigono i nostri passi. E la voce che si fa poesia, canto notturno, invocazione, sogno. Da leggere, assolutamente.