Quando Pinocchio riabbraccia Geppetto finito in pancia al pescecane (monolocale umidiccio ma pur sempre ricovero a una scampata fine) esclamerà di slancio: «Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato!». Collodi non ha dubbi su quale espressione far usare al burattino per manifestare, tutto insieme, affetto, pentimento, riconoscenza: ‘babbo’; anzi, ancora più teneramente, ‘babbino’. Stessa certezza lessicale ebbero Giacomo Puccini e il librettista Giovacchino Forzano, allorché, nel “Gianni Schicchi”, occorse trovare accorate parole affinché Lauretta confidasse al padre la sua cotta per Rinuccio Donati: «O mio babbino caro, / mi piace è bello, bello; / vo’ andare in Porta Rossa / a comperar l’anello!». Per non dire del padre Dante (in tal caso chiamiamolo babbo) alle prese con la non facile descrizione dell’infimo pozzo in cui poggiavano le rocce dell’Inferno («Che non è impresa da pigliare a gabbo / descriver fondo a tutto l’Universo, / né da lingua, che chiami mamma, o babbo»).
Ecco alcune delle citazioni che piace spesso ricordare a suffragio di quanto il termine ‘babbo’ appartenga con pieno titolo alla lingua toscana e, quindi, italiana. In verità – ce lo ricorda doverosamente l’Accademia della Crusca – l’espressione ‘babbo’ è diffusa anche in Romagna, Umbria, Alto Lazio, Marche, Sardegna. Per quanto, al di fuori della Toscana, se ne stia registrando una graduale desuetudine a vantaggio del più ricercato (?) ‘papà’.
Del resto l’uso dei due vocaboli ha da sempre creato opposte opinioni, persino interpretazioni in chiave classista. La voce ‘papà’ – si diceva – era prerogativa delle classi agiate o, tantomeno, indice di fatua esterofilia: «leziosaggine francese che suona nelle bocche di quegli sciocchi, i quali si pensano di mostrarsi più compìti scimmiottando gli stranieri» (così aveva parlato, tra i molti, il letterato Giuseppe Frizzi nel 1865). Dunque si è sempre sostenuto, da parte dei puristi, che ‘papà’ è un francesismo risalente al medioevo, non a caso diffusosi nel Nord Italia per contiguità geografica. Ma di avviso diverso sono ormai diversi studiosi. Infatti uno dei primi riscontri nella lingua italiana lo si ha nei “Dialoghi” di Pietro Aretino, in quella pagina (di esilarante valore pedagogico) in cui «La Nanna insegna alla figliuola Pippa l’arte puttanesca» e la istruisce, alla bisogna, sul modo di schernire un vecchio sporcaccione dicendogli «Chi è la vostra figlia? Pappà, babbino, babbetto, non sono io il vostro cucco?». Ed esistono in Italia altre autorevoli testimonianze letterarie che, a partire dal Cinquecento, attesterebbero il termine ‘papà’ (insieme alla variante ‘pappà’) come autoctono. Ad esempio il toscano Pietro Nelli, in una delle sue satire stampate a Venezia nel 1567, parla di una persona priva di affetti definendolo «uno che non ha chi pappà, né babbo ‘l chiama». Ancora potremmo seguitare con cólti richiami, a testimonianza che quel ‘papà’, alternandosi a ‘babbo’, circola in suolo italico da diversi secoli e, probabilmente, senza che alcun vento gallico lo avesse spifferato al di qua delle Alpi.
Ma la cosa comunque interessante è che – ammessa pure l’origine francese del termine – esso lo si trovi per la prima volta scritto in Francia da un toscano, per la precisione da un senese. Ovvero da Aldobrandino da Siena, vissuto in terra gallica nella seconda metà del XIII secolo. Aldobrandino fu un apprezzato medico ed a lui è attribuito il primo testo di medicina scritto in francese, “Le livre pour la santé du corps garder et de chacun membre, pour soi garder et conserver en santé, composé à la requête du roi de France, par maître Aldebrandin garder”. Il “Régime du corps” (questo il titolo con cui si diffuse) è un’opera del 1265, probabilmente sponsorizzata da Beatrice di Savoia, che fu poi tradotta in latino, italiano, catalano, fiammingo. Frutto di una rielaborazione e aggiornamento di antiche teorie, divenne una importante summa medica, suddivisa in quattro parti inerenti l’igiene generale, le indicazioni per certe cure particolari, la dietetica, gli aspetti fisionomici e psicofisici dell’essere umano.
Già la esauriente scheda della Crusca (“I nomi del padre”) curata da Matilde Paoli cita Aldobrandino, ma una ricerca di Michele Bellotti meglio indaga a quale proposito il medico senese abbia utilizzato il termine ‘papà’. Ad onore del vero non nel senso di ‘padre’, ma comunque nell’àmbito di un universo domestico-famigliare. Cioè per designare il cibo, la ‘pappa’, secondo la tipica espressione pre-linguistica (la cosiddetta lallazione) che i bambini piccoli producono con il raddoppiamento delle sillabe. Da ‘pappa’ a ‘pappà’ a ‘papà’ – lungo il trasporto e le voci degli affetti – la parola è dunque venuta facile.
Ecco allora come il tosco-gallico Aldobrandino avrebbe coniato quel ‘papà’ che, stante la sua origine, a maggior ragione sarebbe stupido contrapporre a ‘babbo’. Il Pascoli, al proprio tempo, definì questa discussione del tutto inutile, in quanto ‘papà’ è una parola da bambino al pari di ‘babbo’ ed è perciò “assurdo fare una censura su questi termini”. Né, ci pare, abbia senso oggi insistere nel considerare ‘papà’ un vezzo di distinzione sociale.
A rigore di statistica (vedasi una recente indagine della stessa Crusca) è confermato, ad ogni caso, che i ‘papà’ surclassano i ‘babbi’. Salvo che in Toscana, dove – sia chiaro – non mancano certo “i figli di papà”, che poi sarebbero quanti “c’hanno il babbo ricco”. Gli stessi che quasi sempre seguono “le orme di papà”, facilitati dal fatto che “il su’ babbo è uno che pòle”. Sull’intero territorio nazionale, tuttavia, “babbo Natale” sembra essere preferito a “papà Natale”. Che forse il primo sia più generoso dell’altro?