La poesia è la regione più estrema in cui la parola sia ancora possibile. Oltre quel luogo c’è il non-detto e forse proprio per questa contiguità con l’inespresso, la poesia talvolta riesce a dire anche l’indicibile. In uno dei suoi testi più intensi, Mario Luzi, non a caso, ebbe a scrivere: “Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione, / giacché talvolta lo puoi…”, quasi a voler invocare il verbo poetico affinché esso scandisse finalmente tutto ciò che ancora non aveva trovato una pronunciabilità.
D’altra parte – e la poetica luziana vi insiste continuamente – permane muta nell’universo una magmatica potenzialità che talvolta il poeta (e solo lui) riesce ad afferrare, e dunque a svelare (se pur a schegge, per frammenti) al sentimento umano; così che l’inconosciuto trovi un nome, venga battezzato.
Non meravigli, allora, come la poesia – e piace sintonizzarci sulla stessa lunghezza d’onda dell’ultima silloge di Cesare Viviani – possa fornire anche la grammatica per leggere quell’invisibile che, magari indecifrabile e incomprensibile, non è comunque al di fuori della natura e dell’esperienza dell’uomo, poiché – dice Viviani – “arriva un tempo in cui finisce il tempo / e sempre più si assottiglia e aderisce / alle rughe della terra e dei massi” e persino la morte “non è condanna, non è sventura, / è natura”.
Ecco, allora, che leggere poesia è apprendere la lingua dell’essenzialità, di una disarmata presunzione, della compassione e della comunione con il mondo; per dirla ancora con Luzi, è costringere i nostri cuori ad una “spoliazione di carità”. E in ragione di ciò ogni poesia è a suo modo misteriosa, tanto da far affermare a Borges che nessun poeta “sa interamente ciò che gli è stato concesso di scrivere”.
Se dunque ai poeti è affidata la compilazione di questo sorprendente codice, valgano per loro gli ammonimenti che Orazio espletò fin dal I secolo avanti Cristo in quel componimento conosciuto, giustappunto, come Ars poetica. Nel precetto conclusivo egli esorta gli autori di versi alla paziente riflessione (mora), a un lungo lavoro di limatura (labor limae), a cancellazioni e riscritture (multa litura), per togliere quanto risulti superfluo, fino a sottoporre l’ultimo risultato creativo alla prova dell’unghia (quella con cui gli scultori constatavano la levigatezza della propria opera conclusa). Del resto l’ironico letterato di Venosa sosteneva che ai poeti non è concesso di essere mediocri: perché non lo permettono né gli uomini, né gli dei, né le colonne (sulle quali, a quei tempi, si affiggevano gli annunci di vendita dei libri).