Ugo Foscolo lo aveva lasciato intendere chiaramente. Dei sepolcri i morti non sanno che farsene; servono, piuttosto, all’illusione dei vivi, se non altro per dare un “luogo” alla memoria e agli affetti (“amorosi sensi”) dei propri scomparsi. Ma a confutare l’asserzione foscoliana c’è un celebre caso letterario: quell’immaginario cimitero di Spoon River, dove invece i trapassati, proprio in virtù delle loro tombe – e ancor più che in vita – si ergono a mostrare pochezza, genialità, anarchia, fragilità, affetti, inadeguatezze (e quindi, se se pur da morti, ad esprimere una rivalsa) verso la vita stessa. La sintesi (im)pietosa degli epitaffi fa redivivi i corpi e tutti i sentimenti che vi si agitarono. E le domande a cui essi (quando era il loro tempo) non seppero rispondere, ora sbalzano, nette, a interpellare altri viventi.
Secondo Cesare Pavese (fu lui a far scoprire il libro di Lee Masters ad una giovanissima Fernanda Pivano, poi diventatane la traduttrice italiana) in Spoon River si trova la “consapevolezza austera e fraterna del dolore di tutti, della vanità di tutti”. E aggiungerà ancora: “Ciascuno di questi morti porta in sé una situazione, un ricordo, un paesaggio, una parola, che è cosa indicibilmente sua… Si direbbe che per Lee Masters la morte – la fine del tempo – è l’attimo decisivo che dalla selva dei simboli personali ne ha staccato uno con violenza, e l’ha saldato, inchiodato per sempre all’anima”.
Almeno fino agli anni Settanta dello scorso secolo, Spoon River fu letto anche in una chiave morale, se non addirittura politica. Emergeva infatti da quelle pagine una “piccola America”, una società chiusa e ipocrita che, secondo il già citato Pavese, viene giudicata e rappresentata da Lee Masters “in una formicolante commedia umana dove i vizi e il valore di ciascuno germogliano sul terreno assetato e corrotto di una società, la cui involuzione è soltanto il caso più clamoroso e tragico di una generale involuzione di tutto l’Occidente”. Non sappiamo quanto questo giudizio possa essere spinto fin dentro il disordinato teatro dei giorni nostri. Sta di fatto che gli spettri di Spoon River non hanno ancora finito di raccontarsi. Dimesse ma tenaci, quelle voci insinuano anche il tempo presente; non più come sperdute vicende personali, ma stavolta universali. Ogni epigrafe è dunque una sentenza rivolta all’umano vivere. Sulla collina di Spoon River dormono tutti dentro l’ossimoro di una inquieta pace. Chiedono un supplemento di vita o per lo meno di compassione, non solo per se stessi, ma per il mondo intero.