Prendete un ragazzino di tredici anni in una New York che sembra svelare il suo volto migliore, quello delle case e delle gallerie d’arte raccontate in qualche commedia più o meno brillante. Mettete un terribile attentato che a quel ragazzino porta via l’unica persona che veramente conta, sangue e macerie laddove prima c’era solo la bellezza dell’arte. E poi andate avanti, con quel che resta, con quello che la vita può ancora riservare.
Con quel boato terrificante, già alle prime pagine, potreste anche ingannarvi, pensare che sia un romanzo sul terrorismo, un legal thriller o una spy-story, comunque un libro classificabile in qualche genere. Invece no, è qualcosa di completamente diverso, “Il cardellino” di Donna Tartt, scrittrice americana che distilla le sue opere in tempi lunghi, segnati dalla ponderatezza e dalla meticolosità.
Pensate, questa è una storia segnata dalla morte della madre ma anche da un quadro, lo stesso titolo del libro e l’immagine in copertina, che è il capolavoro di Carel Fabritius, uno dei maestri del Seicento olandese. Quindi un libro sull’assenza, sul dolore di chi rimane, sulla solitudine, ma anche sulla bellezza, sull’arte che è leggera e indispensabile, che è prima di tutto consolazione.
E per dire, pensate a come si chiama il protagonista: Theo, come il fratello delle indimenticabili lettere di Vincent Van Gogh. Pensate a Fabritius, appunto, anche lui, come la madre di Theo, morto in una drammatica esplosione a Delft. Pensate a quanto c’è di Dickens e per la verità anche di Salinger in questa storia.
C’è perfino troppo, in questo romanzo lungo, sterminato, direi fluviale. Un libro in cui tuffarsi, per riemergere solo all’ultima pagina