John Muir, pianeta terra, universo.
Così si firmava, sul retro di copertina del taccuino, il giovane studioso di botanica che nel 1867 si apprestava a lasciare casa sua, per attraversare il primo di molti confini, quello dell’Ohio. Molti altri ne avrebbe attraversati nei mesi successivi, fino a raggiungere il Golfo del Messico. «La mia idea – scriveva – era quella di spingermi avanti, tenendo il Sud come direzione, attraverso i sentieri più selvaggi e verdeggianti ma meno battuti che potessi trovare…»
Facile riconoscere oggi in John Muir, naturalista di origine scozzese, uno dei padri nobili del nostro ambientalismo. Provate a immaginarvelo mentre decide una cosa del genere, mentre saluta e se ne va, decidendo di muoversi «libero come il vento nelle gloriose foreste e nelle paludi». Con sè solo poche cose e per il resto vedrà: ci sarà sempre un posto per addormentarsi con cielo stellato per soffitto, ci sarà sempre qualche buona persona in grado di sfamarlo. Poco importa se ci sono posti infestati dagli alligatori o – peggio ancora – di bande di criminali che non hanno smesso di tagliar gole dalla fine della Guerra Civile.
Un bel pezzo del diari di questo straordinario cammino è stato ora raccolto in “Mille miglia in cammino fino al Golfo del Messico”, pubblicato dalle Edizioni dei Cammini. Non cercateci lo scrittore viaggiatore, compiaciuto della sua scrittura non meno che della sua impresa. Cercateci la verità di un viaggio, che è anche la sorprendente verità di uno uomo che ha saputo nutrirsi della bellezza del creato. Cercateci la bellezza di un’America che è ancora continente misterioso e selvaggio.
Quell’America che, se è diventata grande, la deve anche a personaggi come John Muir, capaci di mettersi in cammino per i suoi vasti orizzonti.