È di sette morti, due ustionati gravi e due feriti lievi il bilancio dell'incendio scoppiato ieri a Prato in uno stabilimento di moda del Macrolotto, la zona industriale alle porte del capoluogo toscano a denso insediamento di manodopera cinese, stessa nazionalita' di tutte le vittime. Quello che pubblichiamo di seguito è il commento di Fabio Berti, pubblicato oggi da Il Tirreno, cronaca di Prato, docente di Sociologia dell'immigrazione all'Università di Siena.

«Di fronte ad una tragedia di questo genere probabilmente la cosa migliore da fare sarebbe rimanere in silenzio, piangere i morti e evitare facili strumentalizzazioni e poi, subito dopo, mettersi al lavoro per evitare lutti analoghi.

Tuttavia anche nella commozione degli eventi credo sia importante cercare di capire il perché di questa strage che alcuni dicono "annunciata", inquadrandola all'interno di un quadro molto più ampio rispetto al Macrolotto, a Prato o alla Toscana. Innanzitutto occorre ricordare che purtroppo anche questa è una delle molti stragi sul lavoro tipiche di una società fondata sullo sfruttamento dei più deboli: basti qui ricordare la data dell'8 agosto 1956 quando a Marcinelle, in Belgio, morirono 262 minatori di cui 136 italiani, tutti immigrati in cerca di fortuna all'estero. Si dirà che erano altri tempi, che da allora sono cambiate le legislazioni sulla tutela dei lavoratori, che ci sono più controlli, che molti progressi sono stati fatti: eppure ancora una volta ci troviamo sgomenti di fronte alla morte di uomini e donne che stavano semplicemente lavorando.

Perché? Nel caso di questa ultima strage perché sono in molti a trarre vantaggio economico da quel lavoro: i proprietari dei capannoni che riescono ad affittare a prezzi vantaggiosi, i ricchi uomini d'affari che fanno da intermediari, i titolari dei piccoli laboratori che mettono al lavoro i loro connazionali, gli imprenditori che danno le commesse, i commercianti che riescono a procurarsi merce a buon mercato da rivendere con discreti margini di profitto, tutti indistintamente cinesi o italiani, e infine noi, semplici consumatori, che grazie al "pronto moda" cinese prodotto anche a Prato possiamo ancora toglierci lo sfizio di fare acquisti in una situazione di spaventosa crisi economica.

Ma non c'è solo questo. La realtà cinese di Prato è un caso unico, studiato da ricercatori che arrivano da tutto il mondo e si stupiscono di come tale sistema riesca a funzionare. Negli anni '80, quando arrivarono a Prato i primi cinesi, trovarono un ambiente favorevole per attività labour intensive; la crisi del tessile stava liberando molti spazi, c'era un know-how importante e gli imprenditori locali pensarono di trarre vantaggio dalla presenza di questi nuovi venuti, disposti a lavorare duramente e che in qualche caso potevano contare anche su capitali da investire; poi iniziarono a mettersi in proprio e a richiamare amici e parenti perché la produzione aveva bisogno di manodopera. Il modello era – e seppur ridimensionato lo è ancora – abbastanza semplice: l'imprenditore o il titolare di un laboratorio cinese finanzia il viaggio di un connazionale che una volta giunto a Prato ripaga il debito con il frutto del proprio lavoro. Più si lavora duramente, minore sarà il tempo necessario ad estinguere il debito; poi, una volta affrancato da questo impegno che oltre ad essere economico è anche morale, perché è in gioco la faccia e l'onore proprio e della famiglia, riuscirà a sua volta a mettersi in proprio e a far arrivare nuovi cinesi da mettere al lavoro.

In effetti quando si parla di immigrazione cinese a Prato oltre che di sfruttamento del e sul lavoro si parla anche di "auto-sfruttamento" perché ancor prima di partire tutti sanno a cosa stanno andando in contro. Sia chiaro, questo non significa che noi dobbiamo accettare tutto senza mettere delle regole che valgano per tutti allo stesso modo.

I cinesi, però, non sono molto diversi dai tanti piccoli imprenditori italiani che negli anni '60 aprivano il loro laboratorio mettendo al lavoro tutta la famiglia, donne e figli compresi, senza paga e senza orario, senza rispetto di alcuna normativa, con l'unico obiettivo di farcela e potersi mostrare agli occhi della propria comunità come un "uomo di successo".

Il problema è che oggi ci siamo spinti troppo avanti: tutto avviene in nome del denaro che macina anche il rispetto e la dignità della persona.  E allora credo sia meglio non strumentalizzare questo dramma, evitando di mettere sul banco degli imputati i cinesi che semmai sono vittime, e inquadrare in uno sfondo ben più ampio del Macrolotto le cause di incidenti sul lavoro così gravi, indipendentemente dalla nazionalità».