C’è una forte dose di leggerezza, d’irresponsabilità, di stupidità,all’origine degli assembramenti di persone a dispetto di ogni norma di buon senso o disposizione di legge. A diciotto, a venticinque, a quarant’anni, si ritiene che il contagio da Coronavirus non ci riguardi – perché il destino ci è amico, perché la giovane età è dalla nostra parte – e che, nel caso anche risultassimo positivi al Covid-19, l’infezione sarebbe assimilabile a un fastidioso raffreddore. Gli appelli a limitare le uscite, le restrizioni operanti oramai in tutto il Paese, le immagini di medici e infermieri allo stremo e di pazienti intubati, si rincorrono e si confondono, colpiscono l’opinione pubblica, ma non attecchiscono nei telespettatori e nei lettori. E allora torniamo ad accalcarci in una piazza – magari la festa neppure vi è stata autorizzata –, all’interno delle telecabine in montagna, nei locali in cui, da nord a sud, la movida celebra i suoi riti, nel luogo in cui va in scena un flash mob: quando la morte proietta la sua ombra sinistra – l’esperienza lo insegna – la vita esige di essere riaffermata ed esibita. Ma dove un eccesso di vita può determinare un eccesso di morte e dove, soprattutto, la morte di cui si parla non è la mia morte, bensì la morte di chi è più debole, a causa dell’età avanzata, a causa del quadro clinico generalecompromesso, parole come “leggerezza”, “irresponsabilità”, “stupidità”, sono ancora sufficienti a spiegare una determinata condotta? Personalmente ritengo di no.
Credo, piuttosto, che ci sia molto egoismo, che ci sia molta solitudine alla base delle azioni di tanti connazionali, in particolare di chi si trova nella fascia compresa tra i diciotto e i quarant’anni. D’altra parte, l’egoismo costituisce un dato naturale – ne sono fermamente convinto – e perciò va attenuato, va controbilanciato, fin dalla più tenera età, con la generosità, il sacrificio, l’abnegazione, l’apertura all’altro, tutti sentimenti che, in quanto tali, devono essere insegnati. La famiglia e la scuola a lungo hanno svolto questo compito, ma come agenzie formative sono in crisi da tempo, senza che sia dato scorgere all’orizzonte chi sia in grado di esercitare una funzione vicaria. La Rete, infatti, – il luogo ormai deputato alla costruzione dell’identità delle persone – sa esprimere unicamente un individualismo di massa che non ha precedenti nella Storia. Soggetti narcisistici, attenti a percepire unicamente la nostra stessa eco, quale meraviglia se,come adulti, non ci diamo pensiero dei danni che potremmo procurare ai nostri genitori anziani, se, come nipoti, non consideriamo che il Covid-19 a noi potrebbe dare fastidio, ma i nonni potrebbe condurli a morte certa? Senza scordare che la famiglia non esaurisce, non ha mai esaurito, i confini di una società: gli altri non si riducono a coloro che portano lo stesso nostro cognome.
Ma a entrare in gioco è anche un secondo fattore. Infatti, se ragazzi e ragazze, uomini e donne, si sottraggono alla raccomandazione di restarsene a casa o, in ogni caso, di limitare le uscite a quelle necessarie, è perché a casa hanno paura di ritrovarsi da soli. Timore legittimo, dal momento che si può stare da soli esclusivamente quando si è imparato a farlo. A quel punto, la solitudine elargisce i suoi doni e i suoi tesori. Non pesa, non stanca. Al contrario, è benedetta, è amata, è ricercata. Montaigne nella sua torre e Karl Marx nel suo ufficio del British Museumnon si sono mai sentiti soli. In quel silenzio pensavano, leggevano, scrivevano. Mio padre lo ricordo dipingere, mia madre cucire abiti di pregevole fattura. Io e molti miei coetanei approfondiamo temi che ci stanno a cuore, coltiviamo un hobby, assecondiamo una passione, parliamo con i nostri familiari. Ma quelli che sono più giovani di noi? Quelli che, nati negli anni Ottanta, sono stati testimoni e vittime della disgregazione del collettivo, dell’atomizzazione della società, della sostituzione del cittadino, dotato di responsabilità verso la comunità, col consumatore, che si lascia guidare solo da ciò che gli piace? Quelli che, a partire dai primi anni Duemila, sono stati travolti dalla rivoluzione della comunicazione digitale, la quale, ce lo ricorda il filosofo Byung-Chul Han, è una immensa “macchina egotica”? Questi quanto possono sopravvivere nel chiuso delle loro stanze senza venire afferrati dalla nostalgia di un centro commerciale, con tutti i suoi prodotti in bella vista, con l’ubiquità di fotocamere e video, con il suo tempo frantumato, con la sua musica sul sottofondo, con volti, posture, abiti, che li distolgono dal prestare attenzione a loro stessi, con i corpi che, col loro frenetico muoversi e muovere,paiono suggerire l’idea che l’essere umano si esaurisce nell’azione – incessante, variata, frenetica – e che introspezione, conoscenza di sé, riflessione, altro non sono che dei relitti appartenenti a un’epoca conclusa?
Negli assembramenti scriteriati di questi giorni io non scorgo né socialità né insopprimibile bisogna di socialità, ma solo una profonda paura di restarsene da soli, con le propria fragilità, le proprie zone d’ombra, la noia di ore vuote e tutte uguali.