La settimana passata ha visto, riguardo al caso greco, il trionfo dell’esercizio retorico. Ora che il referendum si è chiuso con la vittoria del no, penso sia opportuno fare un po’ di chiarezza, perché quello che sta succedendo riguarda ogni cittadino europeo in prima persona.
Anzitutto, in cosa consiste il problema della Grecia? Il governo greco, negli ultimi vent’anni, ha sempre speso più di quello che ha incassato con le tasse, fino al 2014. Questo squilibrio è stato compensato, come in Italia, dal debito, aumentato a dismisura soprattutto grazie all’ingresso nell’euro. La moneta unica ha garantito all’economia greca finanziamenti ingenti a tassi bassissimi per due decenni. Spinta dal debito, la Grecia è cresciuta a ritmi forsennati, arrivando quasi al livello dei partner europei, pur restando il Paese più “povero” dell’area Euro. Nel 2009, però, si è scoperto che i vari governi che si erano succeduti avevano “sbagliato” le stime di bilancio, e che il disavanzo accumulato era molto maggiore di quello che si era creduto. In conseguenza a ciò, non solo il governo si è indebitato ancora di più per colmare il disavanzo; ma i prestatori hanno cominciato a dubitare che il governo Greco potesse davvero ripagare il debito, e i tassi di interesse (come in Italia) hanno cominciato a impennarsi. I tassi più alti hanno innescato una spirale nella quale è stato chiaro che il governo greco fosse ad un passo dalla bancarotta.
Nel 2010, alla Grecia furono prestate ingenti quantità di denaro dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e da un fondo salva-stati, con la promessa che il governo avrebbe smesso di spendere più di quello che incassava. La maggior parte di questi soldi sono finiti alle banche francesi e tedesche, che erano i principali creditori dell’epoca. Nel frattempo, la BCE ha garantito che le banche greche avessero sufficiente liquidità. I tre “prestatori” (FMI, Commissione Europea e BCE) hanno preso il nome di “troika”. La Grecia, guidata dalla troika, ha quindi tagliato in maniera sostanziale le proprie spese, e alla fine nel 2014 è riuscito a raggiungere il pareggio di bilancio. Questi tagli hanno però aggravato la recessione economica (come riconosciuto, negli scorsi giorni, dallo stesso FMI), tant’è che nel 2012 l’FMI ha dovuto procedere a un nuovo finanziamento della Grecia.
Tuttavia, l’aggravarsi della situazione economica ha reso chiaro che i prestiti dell’FMI sono stati fatti a un paese in bancarotta. La crescita in Grecia non è mai ripartita, l’economia è stata ulteriormente danneggiata dai tagli, e appare chiaro oggi che i greci non sono in grado di ripagare integralemente il loro debito, che ammonta 330 miliardi, 30mila euro ad abitante (in Italia la situazione non è molto più rosea, visto tale rapporto è pari a 36mila euro per abitante, ma l’Italia ha un PIL quasi doppio di quello greco, cioé una capacità quasi doppia di produrre reddito). L’ultima rata dovuta all’FMI non è ancora stata saldata, ponendo la Grecia tecnicamente in default. Il referendum ha però deciso che i greci non accettano le condizioni dell’accordo ad essi proposte, che più o meno consistono in ulteriori tagli di spesa e aumenti delle tasse.
Quali sono gli scenari possibili dopo il no? Provo ad elencarli con la certezza di dimenticarne qualcuno. Quello su cui scommette Tsipras è che si trovi un’accordo tra Grecia e creditori. Tale accordo dovrebbe essere però molto vicino a quello a cui i greci hanno detto no, anche se probabilmente migliore per la Grecia delle condizioni precedenti. Tuttavia, i creditori hanno i seguenti problemi da risolvere. Anzitutto, la Grecia non può non pagare l’FMI, perché questo renderebbe le politiche dell’FMI in futuro molto meno credibili. Si parla già di una prossima direzione dell’FMI non europea, in quanto il fatto che l’FMI sia guidata da un’europeo (ora Christine Lagarde) avrebbe secondo alcuni favorito la Grecia.
Inoltre, il timore principale dei creditori è che il successo eventuale di Tsipras, e cioé un accordo migliore di quello proposto finora, potrebbe spingere gli altri Paesi (Italia, Spagna, Portogallo, Irlanda) a rinegoziare i pesanti accordi firmati negli ultimi anni, o i votanti di quei Paesi a sostenere politici che spingano per la rinegoziazione. Farò un esempio: l’accordo bocciato dai Greci prevedeva l’aumento dell’IVA al 23%. Supponiamo che il nuovo accordo si raggiunga al 21%. Per quale motivo gli italiani dovrebbero accettare di pagarla al 22%, com’è ora? Tali timori sono probabilmente l’ostacolo principale al compromesso, visto che è ormai scontato che i creditori non rivedranno il rimborso totale dei loro prestiti (i greci semplicemente non possono ripagare). Il debito greco non è in fondo così grande, in assoluto, ma quello italiano sì, visto che rappresenta da solo quasi il 25% del debito dell’Eurozona (quello greco è appena il 3%).
D’altra parte, i creditori potrebbero decidere semplicemente di allinearsi al no greco, e di non fare più l’accordo. In tal caso però, non solo perderebbero una quota maggiore del prestito, ma si renderebbero anche responsabili, agli occhi dell’opinione pubblica, dell’abbandono della Grecia. I Greci, infatti, smetterebbero di pagare i loro debiti, e perderebbero l’accesso a ogni forma di finanziamento. Dovrebbero quindi pagare stipendi, pensioni e sanità utilizzando solo le tasse, e questo appare difficile. O dovrebbero trovare un nuovo prestatore, e questo appare ancora più difficile. Sarebbero pertanto costretti, con ogni probabilità, a utilizzare una nuova moneta, e quindi uscire dall’Eurozona. Le difficoltà del popolo greco sarebbero un rischio politico molto grave da correre.
In conclusione, il referendum è solo un passaggio. Il giudizio politico di esso dipende dalle preferenze di ciascuno. Dal punto di vista economico, per capire il destino dell’Eurozona bisognerà aspettare pazientemente ancora qualche anno.
*Per questo articolo, ho largamente usato come fonte “A primer on the Greek crisis: the things you need to know from the start until now”, di Anil Kashyap