E’ un cane che si morde la coda. Se non ci sono i servizi la gente se ne va; se la gente se ne va spariscono immediatamente i servizi. E’ la realtà quotidiana con cui devono fare i conti coloro che vivono nelle aree periferiche. Quelle zone che, con un termine ancora più crudo, vengono definite marginali. Lontane dal centro e dagli investimenti. Dove non ci sono aree produttive, artigianali e ben che meno industriali, e dove non ci può essere un’agricoltura da grandi numeri. Ecco allora che la presenza degli ultimi agricoltori-sentinella diventa basilare per salvaguardare quel che rimane del territorio, prima che del paesaggio. L’equazione per chi è nato, vissuto e che ancora lavora nelle campagne toscane è molto semplice: con la presenza dell’agricoltore il territorio vive e non frana. E’ così da millenni. Ma se nei secoli scorsi questo problema non esisteva, negli ultimi cinquanta anni il fenomeno è purtroppo confermato dai numeri. L’esempio più lampante in Toscana è quello della Lunigiana, dove le piogge autunnali degli ultimi anni, hanno contribuito al fenomeno delle frane che ha provocato distruzione delle aree marginali. Ma la causa principale è sempre la stessa: l’abbandono delle zone rurali. Un trend che interessa ormai anche zone meno impervie, dove le colline sono più dolci, come il senese, la valdichiana aretina e la maremma. In dieci anni – dal 2000 al 2010 come ci ricorda il sesto censimento Istat dell’agricoltura – la Toscana ha perso il 38% per cento delle aziende agricole e 100mila ettari di superficie coltivata, pari al 12% del totale, ovvero 6 volte più della media nazionale (2%) e superiore a quello dell’Italia Centrale (9%). Numeri agghiaccianti, e ancora le conseguenze non sono del tutto note.
Soluzioni? Poche e difficili. Sicuramente la zootecnia è una strada antica e sempre attuale. Fare allevamenti bovini, vuol dire fare seminativi (per i mangini a ciclo chiuso), vuol dire lasciare qualche bandierina di allevatore-contadino nelle zone più impervie. Scordiamoci i mega allevamenti intensivi della Padania, o ancora di più della Francia o dell’Est Europa. In Toscana gli allevamenti – tranne qualche caso davvero sporadico – sono di pochi capi (20-50-150 quando va bene). Comunqe meglio che niente. Ma anche in questo caso non sono rose e fiori. Tutt’altro. Sempre dal censimento sappiamo che nell’ultimo decennio le aziende bovine sono passate da 4.964 a 3.486 (-29,8%) oltre al -10,1% per capi. Ma ripartire dalla zootecnia è un segnale positivo.
Bene quindi ha fatto la Regione Toscana ad aprire nuovi bandi delle misure 211 e 212 (con 100mila euro totale per ogni singola misura) del Piano di Sviluppo Rurale della Regione Toscana 2007-2013 dedicati alle aziende agricole e zootecniche in zone svantaggiate o montane. Le misure (in dettaglio) prevedono l’erogazione di indennità compensative (100 euro/ha) per le aziende in zone montane o caratterizzate da altri svantaggi naturali e che conducono attività di allevamento estensivo. Insomma, una mano concreta, non chiacchiere. L’obiettivo lo ha ricordato l’assessore regionale Gianni Salvadori, che in questi anni, ha dimostrato grande concretezza in questo senso: “vogliamo mantenre un tessuto socio-economico vitale in zone montane spesso poco produttive. La presenza degli agricoltori e degli allevatori in queste zone svolge una funzione di presidio ambientale perché garantisce la difesa della biodiversità e del suolo, nonché il mantenimento del paesaggio”.
Non male sarebbe poi, se la nostra razza chianina, venisse finalmente valorizzata come meriterebbe, per qualità e salubrità. Puntare sulla chianina significherebbe investire su questo territorio e dare ancor più valore aggiunto, e margine di guadagno agli allevatori. Dal 2008 al 2012, però, in Toscana si è registrato un calo del 4,9% di capi di chianina, contro una crescita nelle regioni limitrofe di produzione, ovvero Lazio (+10,5%) e Umbria (+7,4%). Nello stesso periodo circa il 4% delle aziende ha chiuso i battenti. Il problema maggiore, come spesso accade, è quello dei costi di produzione: fare una chianina che ha bisogno di più tempo di vita costa di più e non sempre l’allevatore è disposto a rimetterci la differenza. E poi alcune scelte politiche sbagliate fatte in passato si pagano: come mai nel sud della Toscana sono diminuiti capi ed allevamenti di chianina e maremmana a vantaggio di razze estere come la francese limousine? In pratica, come se la Francia desse incentivi per impiantare vitigni di Sangiovese anziché di Cabernet. Tutto questo a fronte di una richiesta sempre maggiore di carne certificata IGP Vitellone bianco dell’appennino centrale – Chianina. La domanda è ben superiore all’offerta. La grande distribuzione vuole la carne chianina (ancor di più se da filiera no-ogm), la ristorazione non può farne a meno, i consumatori vogliono la vera chianina garantita. Ma i vitelloni di gigante bianco continuano ad arrivare perfino dal Brasile.