La scena era questa. Sul campetto di una Scuola Calcio un gruppo di bambini aspettava l’istruttore che era in ritardo. Già tutti in assetto. Scarpini coloratissimi, movenze da campioni che “non ce n’è per nessuno”. Saluti, vanterie, coloriti motteggi in voci bianche. L’allenatore non arrivava, i genitori (che nelle pratiche sportive dei figli rappresentano la parte più diseducativa) erano già altrove. Quale migliore occasione per organizzare una partitella, fare proprio, e senza intrusi, quel campo agli occhi loro vero come uno stadio. Così fecero i ragazzini. Formarono le squadre, si dettero delle regole. E via a chiamare palla, a correre lungo le fasce, a convergere verso il centro, a calciare la contentezza e la prima aria di primavera. Arbitri di se stessi, invocavano le regole, trovavano un accordo, la moviola dava sempre ragione alla voglia di giocare. Bella metafora, insomma, di una “legalità” positiva, scelta, condivisa. E fin troppo facile era pensare a quanto, oggi, le regole siano precarie. In politica, in economia, nella società in genere, la legalità è ritenuta ormai non plausibile. Usare il termine “etica condivisa” è anacronistico quanto indossare pantaloni a zampa d’elefante. Il richiamo alla morale è da pernacchio, non fa più parte di ciò che in sociologia viene detto “capitale sociale”, cioè quell’insieme di regole che facilitano scambi e collaborazioni tra gruppi. A prevalere non sono i valori collettivi ma individualistici, una concezione personalistica della società. Fragili e sfilacciati risultano i legami sociali, istituzionali, che costituivano il tessuto connettivo del vivere civile. In queste smagliature annidano, così, egoismi, incertezza, cinismo, instabilità, mafie, delinquenza, a discapito della fiducia reciproca e, appunto, della legalità. Dinanzi al tribunale che ci autoassolve, la moralità è caduta in prescrizione. E quando non prevale il disonesto, eccelle il cretino, secondo la irridente lezione che Fruttero & Lucentini impartirono, giustappunto, nella Prevalenza del cretino, poiché sconfiggere costui “è ovviamente impossibile. Odiarlo è inutile. Dileggio, sarcasmo, ironia non scalfiscono le sue cotte d’inconsapevolezza, le sue impavide autoassoluzioni (per lui, il cretino è sempre ‘un altro’)”.
Confidiamo, allora, nei ragazzini calciogiocanti, presi a pretesto di questo piccolo apologo. Che continuino a crescere nel solco positivo delle regole, del gioco di squadra, del bene comune. Che sappiano distinguere il vero dal falso, il giusto dal disonesto, il cretino dal saggio. Anche quando i guardalinee abbassano le bandiere e arbitri mediocri lasciano correre.