Il Tavolo, quello politico, dove la “T” maiuscola sottrae il sostantivo all’anonimato dell’uso comune, al dozzinale da Ikea, e lo sublima a totem, cippo simbolico intorno al quale le idee si contrappongono, e le decisioni affiorano da un universo parallelo, evocate nella catena umana degli intelletti.
Quel Tavolo dove tenere botta e battere i pugni. O permettersi di battere la scarpa, se si è a capo di una superpotenza planetaria.
Allargato, ristretto, sindacale, delle trattative o della concertazione.
Chi lo apre, chi lo concede, chi vi si siede, chi rifiuta di sedersi, chi si alza, chi magari lo ribalta.
Tavoli veri, duri, di legno massello per gente massiccia.
Quelli dove si sta gli uni di fronte agli altri se si è una de “le parti”, mentre si sta intorno se si è colleghi, componenti, amici o compagni. Con la differenza che sta nell’angolatura dei calci dati sotto: frontali nel primo caso, laterali nell’altro.
Il Tavolo che però a un certo momento della nostra storia politica, quella che va tra la fine dei vecchi partiti e il momento in cui gli stessi si accorgono di essere finiti, diventa così tanto oggetto di sublimazione da scomparire gassoso nell’etere.
Per ogni questione c’è un tavolo specifico, ma finisce con “tanti tavoli, nessun vero Tavolo”.
Qualcuno ti pone un problema? Apri un tavolo, e se non scompare il problema, sicuramente ti liberi per un po’ di colui che te l’ha posto.
Il Tavolo diventa riproduzione seriale di discussioni sterili e inconcludenti, strumento per aggrovigliare e incollare su stesse le idee e le riflessioni. Perde la “T” maiuscola anche nella sua dimensione figurativa, per diventare oggetto comune, riproducibile e spesso inutile del dibattito politico.
Il Tavolo simbolo dell’incapacità di dare risposte, luogo dove porre domande che rimangono inevase come tante pratiche sparpagliate su di esso.
Oggi però torna di nuovo protagonista. Non più come elemento figurativo del dibattito politico. Anzi, perde totalmente la sua dimensione figurativa, e come in una sorta di fulminea sedimentazione sul letto del fiume della comunicazione politica, come se la sua gassosità si appesantisse e solidificasse di nuovo, ripiomba nella politica come “tavolo” senza ulteriore accezione, nella sua totale materialità.
Il Tavolo diventa protagonista in quanto tale, in quanto tavolo fisico, visibile e tangibile. Il Tavolo non più immagine di qualcos’altro, ma immagine di se stesso. E se la Leopolda, luogo di culto della comunicazione politica, fa scuola con una stazione riempita di tavoli, ne compaiono a bizzeffe in ogni dove, in ogni sala in cui si tenga un dibattito politico, a simbolo di innovazione e di partecipazione. E finiscono per essere, sotto il profilo comunicativo, i veri attori politici, relegando a comparse coloro che vi siedono intorno.
Non solo, spesso la folla che ad un certo punto vi si ammassa sopra finisce, nascondendoli alla vista, per disturbare il messaggio, per interferire con il significante, indebolendo la trasmissione del significato. Messaggio che appare invece intenso, nitido e penetrante quando i tavoli sono soli nella sala, senza nessuno intorno, liberi di esprimere la loro energia, con geometrie dispositive che richiamano ora la perfezione rinascimentale delle misure ora la solidità degli allineamenti militari . E con un immancabile cartellino sopra (scuola, servizi, sanità…), che li qualifica nella loro missione taumaturgica.