Vivo a Cambridge, con qualche pausa, da una decina d’anni e presumo che continuerò a farlo negli anni futuri. E finché ci vivrò sono anche certo che sentirò l’urgenza di recarmi nei luoghi selvaggi.
Sostituisco Firenze a Cambridge, ed ecco, sento come mie queste parole, che compaiono quasi all’inizio dello splendido “Luoghi selvaggi” di Robert Macfarlane (Einaudi), libro che credo possa soddisfare l’immaginario di ogni uomo di città che, pur rimanendo intimamente e irrimediabilmente cittadino, sa che potrà ritrovare se stesso solo nella tensione verso ciò che non è città. Meglio, verso ciò che si attesta agli antipodi della città in quanto aspirazione ai luoghi più incontaminati, non segnati dalla presenza dell’uomo.
Mica semplice. Perché è vero ciò che afferma Robert Macfarlane:
«Chiunque abiti in una città avrà ben presente quella sensazione di esserci stato per troppo tempo…. »
Però dove trovare il luogo selvaggio nel nostro mondo che anche dove non è stato inquinato e cementificato è stato comunque addomesticato? Che sia la campagna inglese come quella toscana….
E invece sì, è possibile. Almeno è possibile crederci, con la forza di queste pagine che raccontano lunghi e sorprendenti vagabondaggi tra isole e vette, brughiere e foreste.
Giusto per scoprire che si possono disegnare altre mappe, dove ciò che è messo in evidenza non siano i centri abitati e le strade – e perché poi dovremmo pensare che sia questa l’unica lettura di un territorio? Giusto per restituirci quel senso di lontananza che le automobili e i treni, per non dire degli aerei, hanno soppresso.
Per capire che anche nel paese più curato e civile il selvaggio può rispuntare a sorpresa – anche a un chilometro dalla casa dove abbiamo sempre abitato – e restituirci di nuovo a noi stessi.