Nello scorso inserto domenicale del Corriere della Sera si è potuto leggere una intervista a Elie Wiesel, il più celebre sopravvissuto all’Olocausto (oggi ottantaseienne), che all’età di 15 anni fu deportato con la sua famiglia ad Auschwitz. Nell’intervista concessa a Alessandra Farkas confessava che tutt’ora è tormentato dal dolore e dal rimorso nei confronti dei morti (dai campi di sterminio non fecero ritorno il padre, la madre, una delle sorelle). Alla giornalista spiegava anche le ragioni per cui sia necessario raccontare l’Olocausto cercando la verità e tenendosi lontani dalla finzione: “la mia legge morale mi vieta di scrivere un libro di fiction su questa immensa tragedia”. In effetti il racconto letterario della Shoah è indubbiamente quello che risulta più difficile e discutibile, poiché pone la domanda di come sia possibile “decorare” di parole tanta crudeltà. Theodor Adorno era giunto alla conclusione che “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Perciò, a Paul Celan fu contestata la bellezza di certe sue poesie nelle quali, per paradosso, poteva esservi sottesa quasi una “complicità” alle efferatezze compiute nei campi di sterminio. Alla madre, morta ad Auschwitz, aveva dedicato i lancinanti versi che recitano: “Madre, madre / Strappata dall’aria / Strappata dalla terra / Giù / Su / Trascinata…”. E’ vero. Se nella vicenda umana esiste alcunché di inenarrabile, quella cosa è la Shoah. Difficile è poter descrivere un tale sprofondo della storia, dare un senso alla insensatezza, trovare parole per dire l’indicibile. Eppure, ammoniva Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”. Dunque occorre scongelare le parole dal loro blocco morale affinché quanto accaduto sia non solo portato a conoscenza dal punto di vista della storia, ma anche dei sentimenti. A tale proposito la vicenda di Wiesel è esemplare. Per oltre un decennio aveva taciuto ricordi e sofferenza, finché, nel 1958, François Mauriac lo convinse di porre termine al silenzio e di scrivere la sua testimonianza sull’Olocausto (fu tra i primi a usare questo termine). Pubblicò così La nuit, un libro oggi tradotto in 30 lingue e ritenuto uno dei testi letterari fondamentali sulla Shoah. Quel titolo allude alla transizione dall’oscurità alla luce, secondo la tradizione ebraica di considerare l’inizio di un nuovo giorno al calare della notte. Ne La notte, egli dice, “voglio far vedere la fine, la finalità del tragico evento. Ogni cosa va verso la fine – l’uomo, la storia, la letteratura, la religione, Dio. Non c’è più nulla. Eppure noi ricominceremo con la notte”.