«Ogni giorno scrive poesie sul pavimento di pietra, bagnando un dito nella ciotola dell’acqua che beve….»
Come un antico poeta del Giappone, che sa che la bellezza è tanto più bella quanto è effimera. Perché ciò che conta è la creazione, non ciò che di essa rimane. Allo stesso modo dei fiori di ciliegio, i cui petali cadono subito. Bellezza che svanisce, bellezza che evapora, come quelle parole tracciate con l’acqua.
Tutto molto bello, ma non è la bellezza, almeno, non è solo la bellezza, che tutto questo richiama Liu Xiaobo: il poeta che scrive con i polpastrelli bagnati nella ciotola, perché non ha più carta e inchiostro. Perché quella ciotola d’acqua è l’unica cosa che in carcere gli rimane.
Liu Xiaobo, il poeta che hanno condannato al silenzio; il dissidente nella Cina che non ammette nemmeno l’idea del dissenso. Premio Nobel per la Pace, in una cerimonia in cui spiccava la sua poltrona vuota.
Liu Xiaobo, forse un imbarazzo per il regime, il giorno del Nobel. Oggi non più. Non fosse per qualche articolo – come qualche giorno fa quello di Giampaolo Visetti su Repubblica – appena un vago ricordo. Facilmente esorcizzato in Cina e anche fuori dalla Cina, da quel mondo che con la Cina ha smania di fare affari, figurarsi se ha tempo da perdere con quegli scocciatori degli attivisti dei diritti umani.
Vorrei che la bellezza delle parole scritte con le dita bagnate indugiasse tra noi. Vorrei che quelle parole resistessero anche dopo essere evaporate, solo per il fatto di esserci state per un istante. Vorrei che si trasformassero in grido di indignazione. Il nostro grido: ce la faremo?