luziAlcune settimane fa in questo blog già ebbi modo di richiamare il rapporto intenso che univa Mario Luzi a Siena, reso esplicito da testi, dichiarazioni, confidenze del Poeta. La testimonianza letteraria di tale legame può far dire che Luzi sia stato l’ultimo scrittore del Novecento a sostenere un racconto della città del Palio in chiave mitica (racconto, oggi, pressoché interrotto). Egli, infatti, asseriva che Siena è, allo stesso tempo, una realtà urbana (umana) e un mito. In forza del fatto che essa riesce a operare miticamente non solo nella memoria, ma anche nella immaginazione di chi la viva nel presente. Una sorta di virtù “mito-poietica” (che, cioè, crea e produce mito) a cominciare dalla sua “immagine fitta e svettante”, alla sua ubicazione geografica che la pone in una “solitudine altera, romita, disinteressata e sdegnosa”. Insomma, una città dominata da un proprio mito interno, che genera e comunica mito. A parere di Luzi anche il Palio apparteneva a questa facoltà mitica, a un sentimento estremo da ricercarsi in ciò che, di Siena, erano state, un tempo, tensione civica, supremazia politica ed economica, ascesi artistica e religiosa.

Prossimi alla Carriera dell’Assunta dedicata al Poeta nel centenario della sua nascita (è ormai imminente la presentazione del Drappellone che in qualche modo lo evocherà) merita, dunque, ritornare sulla visione luziana della Festa senese. Mi si scuserà se, a beneficio d’argomento, muovo da qualcosa di personale. Ricordo un viaggio con Mario Luzi da Firenze a Siena, durante il quale, tra considerazioni su paesaggio, poesia, varie umanità (indimenticabile il suo eloquio ponderato e a larghe cadenze) parlammo, giustappunto, del Palio. Complice un mio libricino (una lettura del Palio condotta sul filo cangiante della poesia e della antropologia) che di Luzi vantava il viatico della pagina introduttiva. A lui era piaciuto il titolo (“La festa difficile”, nel senso di quanto complesso sia capire il sentimento profondo di quella festa), poiché anche a suo dire non era semplice penetrare l’enigma del Palio, «un mistero – queste le sue parole – che induce pensieri ed emozioni talora contrastanti in chi non è senese, ma ai senesi rapisce e sgomenta all’unisono il cuore con la sua liturgia sublime e terribile». Impresa ardua, quindi, interpretare il Palio, condividendone «in sofferenze e in orgoglio endemicamente il patema», e – diceva ancora il Maestro – provando ad analizzarne «con intelligenza acuta ma non profana» l’attualità, la simbologia, i rimandi storici e politici, i riposti cifrari civili.

In effetti così è. E d’altra parte non può farsi un discorso su Siena senza pensare al Palio, che della città costituisce una sorta di quintessenza. Era stata proprio questa la conclusione della lezione magistrale tenuta da Mario Luzi all’Università per Stranieri nell’ottobre del 1991 (convinti promotori l’allora rettore Mauro Barni e il direttore dei corsi Alessandro Falassi). In quella occasione il professore-poeta fece ricorso alla etimologia. Parlò, alludendo al Palio, di agone e di agonia. Una radice unica per dire sofferenza, convulsione (“sacra epilessia”), combattimento, lotta interna e palese. Un agone/agonia che «cumula tutte le pulsioni latenti e tutte quelle manifeste», che trascende categorie troppo razionali, criteri comparativi o difficilmente applicabili alla Giostra senese. Secondo Luzi (ed era la sua risposta a certe polemiche extra moenia) se ne poteva “ingentilire” qualche aspetto, ma guai a tradirne lo spirito riposto «nelle latebre della senesità. Al punto che se il Palio 䌖un giorno dovesse, sdemonizzato, tornare o continuare come vezzo o come ornamento araldico, beh, Siena non sarebbe più Siena». Se ciò accadesse – tale fu l’epilogo della lectio – «anche il mio rapporto con lei sarebbe meno misterioso. Così non sia».

Rispettoso, incuriosito, affascinato fu sempre Luzi dell’universo senese. Come quando in un articolo di giornale degli anni Cinquanta (“Ritorno a Siena”, poi compreso nel volume di prose intitolato “Trame”, Rizzoli, 1982) scriveva che «si concepiscono qui necessariamente strane passioni e grandi manie, né è possibile vivere altrimenti che in una sottile follia». Con sguardo acuto e divertito, il reporter registrava che «la città è piena infatti di tipi bizzarri, di uomini non in pace, attristati da piccoli crucci o esaltati nella vanità o nella noia». Poi, nei giorni del Palio, «tutto ciò esplode universalmente in una forma che a chi non sia del luogo o non vi abbia dimorato appare inconcepibile».

Tornerà su questa idea di “sottile follia” persino in uno scritto dedicato al rapporto tra Siena e l’acqua. Laddove dirà che «tutte le acque che non si vedono per la città convergono gioiosamente a Fonte Gaia proprio come il popolo nel Campo ai giorni del Palio». Quell’acqua zampilla con letizia tra i marmi modellati da Jacopo della Quercia. Trattasi, però, di «una letizia contenuta che commenta la vita, le passioni e i crucci della cittadinanza, ed è meno pazza di come è lei nelle sue festose e furibonde esplosioni».

La visione (il sentimento) di Luzi sul Palio trova, comunque, la sintesi più folgorante in alcuni versi che lasciano intendere come egli ne avesse colto veramente l’essenza. Innanzi tutto la forza evocante di quel gioco, in cui un’intera città «si dichiara fiera di sé», «fedele alla sua gloriosa guerra». Immaginando di «quante mute e fragorose risse / di uomini e bandiere, di che sfide, / brighe, intese si ravviva / la sua invitta ed armoniosa piena!». Fantasticando sugli uomini che sfilano con «occhi addannati» a guisa di «veliti», cioè di quegli antichi soldati armati alla leggera che per coraggio e sveltezza erano i primi a scompigliare il nemico. Finché l’intera piazza avvamperà nella corsa, nel «furore policromo del bruciante mulinello» (ecco espressa in due soli versi la densità di un lungo racconto). In tali attimi – avvertiva il Poeta – è come se la città convocasse i suoi figli ad «una meravigliosa sofferenza». Ogni volta pure lui sentiva, empaticamente, di dover rispondere all’irrevocabile appello. Magari non con la medesima passione di un figlio – badava a precisare – ma di chi come un figlio voglia ricambiare affetto, comprensione, riconoscenza.