Matteo Renzi«Caro Matteo, ci hai raccontato per un’ora, e anche in maniera po’ approssimativa, cose che conosciamo anche meglio di te, essendocene noi occupati già da anni e in maniera professionale».

Così un dirigente PD interveniva in una Direzione Nazionale di qualche mese fa dopo la relazione del Segretario Nazionale.

In quelle parole c’è tutta l’incomunicabilità tra Renzi e molta parte del suo partito, ma anche il perché della sua forza comunicativa.

Quel dirigente fa finta di non sapere che Renzi non parlava a lui che gli stava seduto di fronte, ma al cittadino medio che sta a casa, e che in quanto tale non è tenuto a conoscere a fondo le questioni che si affrontano, né ad approfondirle in seguito, e che spesso si limita a scegliere di chi fidarsi al di là del merito, o a dare la propria preferenza all’esposizione dei fatti che a pelle gli è sembrata più credibile.

E tra il giovane Renzi, arrivato in vetta promettendo di rottamare la vecchia politica, cavalcando la retorica del “fare” e del sì contro il no, che cita le canzoni dei Negrita e fa striscioni parafrasando titoli di Vasco Rossi, fresco, dinamico, che parla come mangia e fa simpatici giochi di parole; e dall’altra parte qualche vecchia cariatide di quella stessa vecchia politica semi-rottamata, che ha avuto tutto il tempo in passato per fare e per trovare i “sì” giusti mancandoli invece implacabilmente tutti, che parla un italiano non compreso nel Paese dell’analfabetismo funzionale e che ti cita Gramsci a memoria, a chi crederà il cittadino medio?

Perché credere, quando non ci sono più punti di riferimento, è anche questione di immedesimazione.

Quando Renzi parla dei 100 collegi della nuova legge elettorale come di piccoli collegi, sa benissimo di dire una bugia, e gli addetti ai lavori lo sanno che non è vero. Ma il cittadino medio non è tenuto ad essere un esperto di leggi elettorali, né tantomeno a sapere che quando una legge elettorale, il Mattarellum, i collegi li aveva davvero piccoli, essi erano ben 475.

economia2_0.jpgSe Renzi dice che con il jobs act aumentano i diritti dei lavoratori, non è che ha subito un colpo di sole, lo sa di sostenere l’insostenibile, ma anche in questo caso sfido il cittadino lavoratore, con tutti i problemi che ha, ad andare a studiarsi leggi delega e decreti attuativi.

Se Renzi con uno zero virgola di Pil in aumento parla di un Paese in ripresa, sa bene che gli economisti tecnicamente parlerebbero invece di stagnazione, e che la ripresa vera è ancora lontana dal venire. Ma il cittadino medio vede un segno più, e se glielo dice il Presidente del Consiglio che abbiamo il vento nelle vele…

Quando Renzi si fa alfiere della bandiera dell’abolizione della tassa sulla prima casa perché ingiusta, lo sa bene che c’è in tutta Europa e che la sua è solo un’operazione di propaganda che finisce per aiutare chi più ha e danneggiare chi meno ha; ma il cittadino non è che si può mettere a fare tutti i conti a fine anno di quanto ha guadagnato dall’abolizione e perso dai conseguenti tagli ai servizi.

Il cittadino spesso sceglie a “chi” credere, prima ancora che a “cosa” credere.

Renzi è bravo, molto, a farsi credere. Certo, da platee in cui mediamente le persone conoscano in superficie gli argomenti di cui si parla e quando riesce a non entrare troppo nel merito del questioni.

Per questo trasforma sempre e comunque le riunioni di partito in un comizio streaming per chi sta a casa, in cui parlare solo per titoli degli argomenti senza mai approfondirli, e spostare il gioco appena può sul campo amico-nemico, innovatore-conservatore, sì-no, nuovo-vecchio, tutte dicotomie che prescindono dai fatti e che, nel migliore dei casi, si fondano sulle storie personali, nel peggiore sulla percezione indotta, ma che sempre poco hanno a che vedere col merito delle questioni.

Non ha bisogno di organismi di partito, cioè di confronto nel merito sui temi con persone preparate; rifugge dal contraddittorio. Ha bisogno di un palco, un microfono e una telecamera, e di raccontare con straordinaria efficacia la sua versione dei fatti, tanto da farla diventare verità.

Mettersi nel mezzo significa prendere mazzate: se cerchi di spiegare e argomentare passi per un sofista anche un po’ presuntuosetto, qualcuno che vuole rompere l’idillio di immedesimazione tra leader e adepto, con ragionamenti avulsi dalla realtà e dettati dall’invidia.

O ancora peggio come un nemico, e siccome i nemici fanno tanto comodo, una volta arruolato come tale non ti lasciano più andare. Gli servi tanto e forse più degli amici.

Si dirà: la propaganda c’è sempre stata, dove sta l’eccezionalità?

Qui sta il punto centrale della questione.

L’eccezionalità sta nel vuoto in cui la propaganda oggi può espandersi, come un gas che occupa ogni spazio non trovando nulla che lo comprima.

Perché dopo più di vent’anni di una politica inefficiente, di un sistema Italia che è andato alla deriva, istituzioni che non funzionano, malaffare, ruberie, privilegi, furberie, è rimasto il deserto, l’assenza totale di riferimenti certi nei quali riporre fiducia.

Siamo un Paese sfiduciato, che non concede autorevolezza più a nessuno, che non riconosce a nessun soggetto terzo, che agisca nell’arena del dibattito pubblico, una reputazione tale da attribuirgli la facoltà di dire la verità, o smascherare le bugie, in maniera più o meno disinteressata e dunque oggettiva.

Non ci sono più enti, istituzioni, soggetti sociali a cui ci si affidi per trarre strumenti utili a distinguere i fatti dalle ricostruzioni di comodo.

Un Paese che non concede a nessuno di occupare il vuoto se non alla propaganda.

Così tra i dati macroeconomici dell’lstat, che sarebbe l’ente deputato a fornire quelli ufficiali e inconfutabili, e i numeri dati dal Governo, che è perlomeno parte in causa, il cittadino mette tutto sullo stesso piano.

Tra i numeri della spending review forniti da Cottarelli, che è un tecnico pagato per fare analisi oggettive dei dati, e le opinioni del Segretario del PD che è un politico con interessi politici, non si fa distinzione.

Tra le statistiche ufficiali di centri di ricerca e uno sproloquio di numeri del politico che passa di lì per caso, si crede a chi la dice meglio.

Per non parlare dei sindacati, dei giornalisti, degli intellettuali, a nessuno è riconosciuta la facoltà, in nome della propria preparazione, o della propria professionalità, o anche della propria storia, di dire qualcosa che abbia, almeno in linea teorica, un valore di verità presunta superiore.

Tutto sta sullo stesso piano di tutto il resto. Tutto vale come il contrario di tutto.

Con la conseguenza che anche la matematica diventa opinione, tutto è doxa e niente è episteme. Ma ogni doxa vale l’altra, e il politico dunque non ha pressioni, non è responsabilizzato alla verità, non ha nemmeno l’onere di non smentire oggi quello che ha detto ieri, bensì può liberamente giocarsela sul campo della narrazione e della mera percezione.

Renzi sguazza e guizza come un pesce in acque cristalline dentro questo contesto, perché conosce tutti i trucchi per trasformare un racconto di fantasia in un documentario, la letteratura in saggistica.

Per farlo ha bisogno che tra lui e il suo pubblico non si frapponga nulla di credibile agli occhi della massa, e mai come oggi poteva trovare, in Italia, un nulla più nulla di questo.

Ecco perché proprio Renzi, ecco perché proprio oggi.

Ah! Non è che Berlusconi non facesse cose analoghe, se è riuscito a far passare una prostituta minorenne come la nipote di un capo di stato.

Solo che a sinistra siamo passati dalla sobrietà un po’ grigia del Bersani Segretario con il suo “vi dirò la verità, non racconterò favole al Paese, a costo di perdere le elezioni”, cosa tra l’altro puntualmente accaduta, a questa iperbolica narrazione renziana dal labile confine tra fiction e realtà, in cui tutto è copione; a questi continui dribbling con finte e controfinte e magari simulazioni in area di rigore, in cui tutto è funzionale alla vittoria finale.

Uno rimane spiazzato.