La partita che si giocherà nelle prossime settimane sulla legge elettorale – in particolare sull’alternativa tra confermare il maggioritario, in una delle sue forme possibili, o ritornare al proporzionale – non è relegabile ad un confronto fra tecnicismi elettorali, perché attiene alla sostanza di modelli democratici profondamente diversi tra loro.
La vittoria del no nel referendum costituzionale viene usata, da una parte di coloro che hanno sostenuto la riforma, per rappresentare come inevitabile il ritorno alla democrazia del proporzionale, e da alcuni detrattori come la prova che gli italiani vorrebbero ritornare al vecchio sistema. In entrambi i casi facendo un uso improprio del risultato referendario.
Lo stesso dicasi per la “bocciatura” dell’Italicum: la necessità di abbandonare una legge elettorale che era già sbagliata in partenza, ma che è diventata di fatto oggi del tutto inapplicabile (necessità già determinata dai fatti, e magari il prossimo 24 gennaio anche sancita dalla Consulta), viene da più parti utilizzata per dimostrare l’ineluttabilità dell’adozione di una legge di senso opposto dall’impianto proporzionalista.
Qui non si vogliono negare le mancanze e le degenerazioni di quella che viene definita Seconda Repubblica, nata anche da una riforma in senso maggioritario delle legge elettorale nazionale.
Tanto meno nascondere che l’idea di risolvere i mali del Paese attraverso un meccanismo elettorale sia risultata alla prova dei fatti illusoria.
Ma non si vogliono nemmeno dimenticare le altrettante degenerazioni a cui il sistema dei partiti era giunto al termine della sua parabola storica nella cosiddetta Prima Repubblica, e la sua sopraggiunta inadeguatezza a rappresentare le trasformazioni sociali e politiche del Paese.
Inadeguatezza che comprendeva anche il vecchio sistema elettorale proporzionale, sul cui superamento i cittadini si espressero inequivocabilmente nel referendum del 1993.
Occorre recuperare il senso più profondo di quel pronunciamento popolare e del relativo movimento d’opinione, che non stava tanto nell’idea di ottenere attraverso il maggioritario una stabilità ad ogni costo, creando artificiosamente in Parlamento maggioranze lontanissime da essere tali nel Paese, quanto nella possibilità concreta da parte degli elettori di scegliere i propri rappresentanti, e far sì che essi si sentissero responsabili del loro operato di fronte soprattutto agli elettori del proprio collegio, oltre che ovviamente di fronte alla Nazione.
Non è il maggioritario dell’Italicum quello di cui avevamo in definitiva bisogno, ovvero di una legge tutta orientata alla stabilità e poco alla rappresentatività degli eletti. Pensata per attribuire per regola matematica una maggioranza ad un partito in ogni caso, attraverso un illimitato premio di seggi assegnato a prescindere dal reale consenso della lista vincitrice al ballottaggio, con parlamentari la cui candidatura prima ed elezione poi sarebbero dipese soprattutto dai partiti prima che dal voto dei cittadini.
Bensì di un maggioritario che attribuisca la massima rappresentatività ad ogni singolo eletto, attraverso piccoli collegi uninomali, e che faccia di questo il suo fulcro legittimante, tale da rendere accettabile, insieme alla garanzia di un “diritto di tribuna” per le forze politiche minori, quell’inevitabile grado di disproporzionalita tra voti ottenuti e seggi attribuiti propri di ogni sistema maggioritario.
Il timore è invece che adesso prevalgano gli istinti di autoconservazione, soprattutto in un centrodestra ancora in profonda crisi di identità e leadership, ma anche alla fine nel PD, scosso nelle sue certezze dalla sconfitta referendaria, nonostante per il momento la sua proposta ufficiale sia ripristinare il Mattarellum.
Concreto è il rischio che si arrivi ad una legge sostanzialmente proporzionale (magari mascherata con un premio di maggioranza dalla soglia irraggiungibile o con finti collegi uninominali), con il corollario di forti meccanismi di controllo degli eletti da parte delle segreterie dei partiti, nel tentativo di rendere “a salve” le prossime elezioni politiche, impedendo che ne esca un vero vincitore, per il timore di non esserlo nel caso ce ne sia invece uno.
Contando magari sul fatto che in un sistema tripolare come quello italiano, nel quale una delle tre forze, il M5S, si autoesclude a priori da qualsiasi alleanza o accordo di governo, le uniche maggioranze possibili, in assenza di un vincitore, non potrebbero che prevedere la presenza al Governo delle altre due.
Non vorremmo insomma che all’incertezza di provare a vincere ma con il rischio di perdere, si preferisca la certezza di non perdere a costo di nuove larghe intese.
Raccontare però che sia la bocciatura della riforma costituzionale a spingere in maniera inarrestabile al ritorno a logiche parlamentari da Prima Repubblica, o al procrastinarsi sine die delle larghe intese, risulta pretestuoso, se non appunto un alibi, soprattutto da parte di chi della democrazia dell’alternanza ha fatto una sua bandiera, a destra quanto a sinistra.