In tema di letteratura teatrale la questione teorica è sempre stata quella di stabilire se un testo drammaturgico potesse avere o no autonomia letteraria a prescindere dalla sua rappresentazione scenica. Anche in considerazione del fatto che il teatro ha di per sé una “mobilità” attraverso cui i materiali scritti per essere recitati vanno frequentemente a finire nella letteratura, e viceversa. Il Novecento italiano ne vanta significativi esempi con Pirandello, Viviani, De Filippo, Fo. Tre uomini di scena – come ebbe a dire lo studioso Ferdinando Taviani – che divengono, appunto, anche uomini libro.
Continuiamo a domandarci, comunque, quanto e in che modo un copione teatrale sia da ritenersi “letterario”, tenuto conto, peraltro, di come una eccessiva perfezione stilistica possa costituire addirittura un elemento negativo, almeno secondo una logica meramente drammaturgica.
La querelle, non certo nuova, fu affrontata anche da Pirandello con un intervento apparso il 30 luglio 1918 su “Il Messaggero della Domenica”. In quell’articolo il nostro premio Nobel se la prendeva con gli autori drammatici che volutamente scrivevano “male” perché, a loro dire, i personaggi delle commedie, non essendo letterati, “debbono parlar come si parla, senza letteratura”. Però – osservava Pirandello – così facendo, essi “confondono lo scriver bene con lo scriver bello”. Si sappia invece – proseguiva l’acuta analisi pirandelliana – che quando un autore di teatro sa trovare le parole per rendere bene un determinato personaggio, una scena, un gioco, il suo linguaggio non sarà mai “comune”, e diverrà opera letteraria al pari di un romanzo o di una poesia.
Nel 1967, grosso modo su questa stessa questione, attraverso le pagine del Corriere della Sera ci fu un interessante scambio di opinioni tra Giuseppe Dessì, Carlo Bo e Geno Pampaloni. In quel caso Dessì lamentava come i critici letterari non assolvessero il compito di illustrare la parte teatrale degli scrittori. Ma a parere di Bo l’opera teatrale degli scrittori per la gran parte dei casi (salvava giusto Balzac) non è che un’appendice dell’opera letteraria vera e propria. Da par suo Pampaloni rincalzava che lo scrittore di oggi, sfiduciato nei confronti della letteratura, tende a far prevalere l’interesse per la tecnica dei linguaggi, cosicché quando scrive per il teatro “ingloba una realtà di comunicazione che la semplice parola scritta non avrebbe più”.
Or dunque: primato del libro o del palcoscenico? E non si dica con il dissacrante Baudelaire che “ciò che ho sempre trovato di più bello a teatro è il lampadario”.