Quando tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso apparvero i primi libri di Gianni Rodari, pochi colsero la novità di una letteratura per l’infanzia che abbandonava il “bamboleggiamento” delle storie troppo caramellose o truci per condurre i piccoli lettori nella dimensione fantastica del mondo reale. Nasce così una poetica giocosa e ironica attraverso cui poter parlare ai bambini di tematiche impegnative come la pace, la guerra, l’emigrazione, il lavoro, le ingiustizie, la libertà. Perché la fiaba è anche utopia, potere dell’immaginazione e del paradosso. “Le fiabe – scriverà Rodari in Grammatica della fantasia – servono alla poesia, alla musica, all’utopia, all’impegno politico: insomma, all’uomo intero, e non solo al fantasticatore. Servono proprio perché, in apparenza, non servono a niente”.
Ecco, allora, un nuovo manifesto della letteratura per l’infanzia (e non solo). Ma oltre i propositi apparirà subito sorprendente la scrittura rodariana che lascia intendere la lezione dei surrealisti francesi (si pensi agli Esercizi di stile di Raymond Queneau), così come di certa letteratura novecentesca italiana che in autori quali Aldo Palazzeschi e Cesare Zavattini vide raffinate espressioni di ironia ed umorismo.
La realtà si può dunque guardare da prospettive diverse e raccontarla con un linguaggio altrettanto inconsueto, che sappia giocare con le parole, capovolgere i significati, legittimare persino gli errori di ortografia. Da qui fuoriescono inventori di macchine per creare arcobaleni, trapanare l’acqua, fare il solletico alle pere. Oppure filastrocche che risultano dei veri “giocattoli poetici”, recuperano rime e ritmi della tradizione orale, smontano e restituiscono parole in tutte le loro possibili combinazioni. Rodari è un intelligente funambulo della parola messa a servizio della fantasia e di un’azione pedagogica che insegni a saper guardare il mondo. Poiché – egli diceva – “vedere i bambini felici non ci può bastare. Dobbiamo vederli appassionati a ciò che fanno, a ciò che dicono, a ciò che vedono”. Un messaggio che vale ancor di più per gli adulti, i quali, per citare ancora un divertente apologo rodariano, dovrebbero fare in modo di maturare lasciando “bambino” per lo meno un orecchio. Un orecchio “acerbo” che serva per capire “le cose che i grandi non stanno mai a sentire: / ascolto quel che dicono gli alberi, gli uccelli, / le nuvole che passano, i sassi, i ruscelli, / capisco anche i bambini quando dicono cose / che a un orecchio maturo sembrano misteriose”. Chi dunque ha “orecchio” per intendere, intenda.