Fedele alla massima che vuole la vita troppo breve per sprecarla mangiando male, bevendo male e, mi permetto la licenza, anche scrivere di chi cucina e ristora male, non ho mai fatto post dedicati alle occasioni in cui non solo le mie aspettative in un locale sono state deluse, ma nemmeno ai ristoranti dove ho affisso mentalmente un cartello con scritto «Qui non ci torno più».
Quello dove ho avuto la poca fortuna di pranzare qualche giorno fa, però, è stata la “personificazione” di tutto ciò che un’onesta cliente si augura di non trovare mai: la realizzazione del decalogo del pessimo ristoratore. Tutto male e tutto nello stesso posto. Ho lasciato passare qualche giorno dall’evento, così, giusto per far decantare il disappunto, e alla fine ho capito che raccontare questo specifico caso non è una perdita di tempo. Qualche ristoratore sbadato potrebbe sempre leggerlo e cambiare il tiro. E poi la mia massima preferita dice che «se non potete eliminare l’ingiustizia, almeno raccontatela a tutti». Insomma, è andata così. Ero in un paesino minuscolo e splendido sull’Appenino e all’ora di pranzo ho preso la mia pargola pregustando un’ora di assaggi gourmet nella locale enoteca che, oltre ai vini, in bella mostra su due vetrine raccontava di avere anche una selezione di birre artigianali. Era un caldo infernale, cosa meglio di una bionda ghiacciata? All’ora di pranzo dei bambini, le 12,15, c’erano sei clienti. La cameriera ci ha fatto sedere ai tavolini fuori, in un angolo che sembrava un sottoscala ma aveva il pregio di essere al fresco, ha portato il seggiolone per la pupa e mi ha chiesto cosa volevo bere. Acqua per lei e una birra per me. «Cosa avete?» «Non lo so, se vuole venga dentro a vedere» . Come partenza non era male: un cartello stile Las Vegas dice che hai birre artigianali e la tua unica cameriera non solo non le conosce, ma non ha nemmeno la gentilezza di andare a cercare una carta e ti dice che se ne vuoi una, te la devi andare a scegliere? Ho chiesto una chiara non pastorizzata. Ammesso che ci fosse. E una mezza porzione di pasta all’olio per la bimba, che ha gusti semplici e poco appetito. Una richiesta normale in un locale dove in carta hai elencati sei primi di pasta diversi. La reazione della cameriera mi ha sorpreso: «allora le mando il titolare» . Per mezza porzione di pasta all’olio? Ripensandoci, il titolare poteva lasciarlo dove stava. «Allora, cosa volete?» «Vorrei mezza porzione di pasta all’olio per la bambina, possibilmente pasta corta. Magari delle penne?» «Non ci sono penne, quello che c’è, è scritto sul menù». L’ultima frase è stata detta con un tono capace di rinfrescare la calura agostana e con così tanta scortesia che ho considerato l’immediato abbandono della posizione. Non l’ho fatto e me ne sono pentita. Per ridurre i tempi di permanenza in tale amabile compagnia, ho ordinato solo un “antipastone” che comprendeva crostini misti, uno sformatino non meglio identificato e un assaggio di panzanella. Il tutto per “soli” 13 euro. Se me ne fossi andata quando ero in tempo… I crostini erano cinque fettine di pane coperte da uno strato di formaggio secco e gommoso, forse una volta era stato mozzarella, con sopra, nell’ordine, un frammento di pancetta d’annata (immagino un 2013), due estremi di radicchio trevigiano sbruciacchiati, frammenti di peperoni al forno e sugli ultimi due non chiedetemi cosa ci fosse perché ho rimosso l’odioso ricordo. Lo sformatino era giallo e coperto di salsa di pomodoro, tipo pomarola calda. Di più, non saprei dire.
La panzanella, invece, non credo la dimenticherò mai. Era fatta di molliche di pane. Non di pane, solo molliche, come quelle che si raccolgono dal tavolo a fine pasto. Non sembravano, ma vista la riduzione in briciole non posso giurarlo, non sembravano nemmeno di pane toscano, ma prese da quei panini che hanno la mollica spessa, spessa, come una gomma bianca densa. Oltre a non avere pomodoro o basilico o cetrioli come condimento, queste molliche di pane bianco che dovevano essere panzanella erano legate con un ingrediente che non ho mai visto né sentito rammentare nella panzanella: i fagioli borlotti. Qua è lá, filamenti di cipolla bianca completavano l’insulto a uno dei miei piatti preferiti. La cipolla nella panzanella è quella rossa! Ho assaggiato tutto, ho lasciato due crostini e metà dell’ipotesi di panzanella. Ho finito la birra, che era buona ma non abbastanza per cancellare il sapore amaro di tutto il pranzo, del misero servizio e della sovrana scortesia.
Dove é successo tutto questo? Nell’unica enoteca che c’è a Palazzuolo sul Senio e di cui non faccio il nome perché non lo ricordo e non voglio ricordarlo.