Già il fatto che in epoca quattro-cinquecentesca sia esistita una poesia… maccheronica (un bel pasticcio di lingua italiana ripassata in latino) la dice lunga sul rapporto tra letteratura e cucina. Battute a parte non si possono davvero ignorare i significati culturali del cibo. In esso, infatti, sono rappresentate vere e proprie metafore sociali, differenze e identità di gruppo, modi e tempi di socializzazione, linguaggi e parole. E quindi letteratura.
La bibliografia in materia è ricca di prelibatezze. Verrebbe da cominciare, ad esempio, con quella Cena di Trimalcione che ad un’analisi letteraria (da preferire senz’altro a quella dei trigliceridi) mostra l’efficacia teatrale e grottesca che può assumere la descrizione del cibo. Non certo ai livelli esagerati di Petronio, ma anche Boccaccio nel suo Decamerone non fa mancare niente sulla tavola: soprattutto prelibati arrosti abbinati a ottimo vino, come la bella lingua che quelle novelle ha costruito in coerenza tra forma e contenuto.
Del resto mangiar bene è un’arte, e non di meno è lo scriverne, come dimostrò Pellegrino Artusi offrendo una nutrita (e nutriente) raccolta di ricette alla borghesia di fine Ottocento che volentieri sedette a tavola più per fama (ovvero per affermazione di se stessa) che per fame.
La lista delle leccornie letterarie sarebbe davvero lunga. Proseguendo per assaggini meriterebbe piluccare dalla tavola di Nero Wolfe una raffinata insalata brasiliana di aragosta. Mentre, almeno per quanto ci riguarda, eviteremmo “il sapore dell’olio rifritto che aveva fatto da base a una paella cucinata da uno specialista in scienze naturali, ossessionato dall’idea di combinare tutta la botanica e tutta la zoologia possibile in un solo piatto”, quale ce la serve l’insuperabile Manuel Vasquez Montalban (“Il centravanti è stato assassinato verso sera”). Per noi ghiotti di dolci e di Proust non sarà invece da tralasciare quel soffice dolcetto a forma di conchiglia detto “madeleine” che intinto in una tazza di tè fa assaporare nella Recherche i lontani ricordi dell’infanzia.
Parlare di cucina è parlare di vita e non è a sproposito che convito voglia significare “vivere insieme”, perfino riappacificarsi con se stessi e con gli altri. Ricorderete quel miracolo della riconciliazione raccontato da Karen Blixen nel Pranzo di Babette, durante il quale ciascun convitato rivela il meglio di sé, abbandona il ghigno dei rancori e sembra finalmente capire che le cose dello spirito non sono alternative a quelle della carne.