MONTALCINO – La recente polemica sul rifacimento di circa un chilometro e mezzo di strada dal km 3+400 al km 5 della S.P. 103 di “Castiglion del Bosco” nel Comune di Montalcino, evidenzia, se ancora ce ne fosse bisogno, due elementi: il primo, che l’ambientalismo ideologico e militante alla Val d’Orcia e più in generale alla Toscana non ha mai portato benefici, semmai ha contribuito a distruggere un’immagine piuttosto che a preservare. Il secondo, che l’avvento dei social ha completamento azzerato la capacità critica di giudizio rispetto al verificarsi di un fatto.

Oggi il tema della discussione in Val d’Orcia, così come in gran parte della Toscana, nelle così dette aree marginali e rurali, non può certo essere solo quello dell’ambientalismo e della conservazione, non può essere quello, per il ‘sollazzo di pochi’ della realizzazione di gare e passerelle vintage in bicicletta in un territorio sempre uguale a sé stesso – che poi sempre uguale a sé stesso non è mai stato, – quanto piuttosto quello economico, dei servizi, del ripopolamento, dell’insediamento e del ritorno. Un nuovo approccio che già suggeriva Nuto Revelli negli anni ’70 quando scriveva, a margine delle sue interviste contadine, che non dobbiamo essere né nostalgici della società contadina tradizionale, né turisti che amano trascorrere il weekend in campagna: “mi interessa il passato – diceva – in quanto mi aiuta a capire la società di oggi”. L’abbandono, infatti, ci consegna il tema del ritorno.

Dal punto di vista storico c’è stato, nel corso del XX secolo, un processo di marginalizzazione delle aree rurali, legato all’industrializzazione e all’urbanizzazione. Al tempo del boom economico, mentre l’Italia diventava un Paese industriale e si rafforzava economicamente, un’altra Italia, ben più grande e diffusa, subiva lo spopolamento, l’abbandono, la dimenticanza, con l’esodo rurale che trasformava la società e il paesaggio. Una gran parte del territorio – quella delle campagne collinari, della montagna, dei fondovalle interni e dei paesi – si è ritrovata ai margini, diventando una grande periferia rurale trascurata o dimenticata, svuotata di abitanti, funzioni e servizi, ferita nella sua dignità ambientale, sociale e culturale. I dati dei censimenti della popolazione non lasciano dubbi sul fatto che, soprattutto dalla metà del ‘900, la caduta demografica nei comuni interni dell’Italia sia diventata più forte, in molti casi rovinosa.

Secondo quanto evidenziato dal censimento Istat del 1951 nei cinque Comuni di quella che adesso è la Val d’Orcia si contava un totale di 21.120 abitanti così suddivisi: 5.244 a Castiglione d’Orcia, 2.332 a San Quirico d’Orcia, 4.770 a Pienza, 13.466 a Montalcino e 2.748 a Radicofani. Quarant’anni dopo, nel censimento del 1991, il numero degli abitanti totale scende a 14.885 così suddivisi: 2.840 a Castiglione d’Orcia, 2.389 a San Quirico d’Orcia, 2.330 a Pienza, 6.026 a Montalcino e 1.300 a Radicofani. Cala ancora il numero degli abitanti, dieci anni dopo. Nel 2021 gli abitanti della Val d’Orcia sono in totale 13.625. A Castiglione d’Orcia calano a 2.158, a San Quirico d’Orcia tornano a salire a 2.644, scendono a Pienza 2.029 e a Montalcino 5.704. Cala ancora Radicofani che si attesta a 1.090 abitanti. Unica eccezione San Quirico d’Orcia che fa segnare, invece, in ciascuna delle tre rilevazioni un dato positivo in controtendenza.

“Questa vasta Italia, ingiustamente definita “minore”, contiene risorse diffuse, ricchezze e bellezze utili non solo ai pochi abitanti rimasti, ma all’intera società – ha ben spiegato il prof. Rossano Pazzagli in Valore Val d’Orcia il fenomeno del paesaggio italiano più iconico al mondo (primamedia editore).- Qui, nei territori di civiltà antiche, si è accumulato nel tempo un patrimonio diffuso fatto di prodotti, ambiente, paesaggi, valori culturali, salute e virtù civiche che oggi tornano ad essere necessarie per rispondere alla crisi del presente, una crisi al tempo stesso economica, sociale, politica e infine anche sanitaria. Ora che, pur tra molti problemi, c’è un movimento di ripresa di attenzione sul territorio e sulle aree interne, con una strategia nazionale e tante iniziative locali in atto, è necessario capire il declino e progettare la rinascita, ponendoci nella prospettiva di superare lo spaesamento e riabitare l’Italia abbandonata, trascurata e delusa. Ciò significa anche comprendere le differenze, poiché l’abbandono non ha avuto dappertutto le stesse conseguenze. Non si tratta solo di differenze geografiche tra Nord e Sud, ma di una articolazione più complessa di territori, di livelli di perifericità, di sopravvivenza o meno delle comunità locali o del senso dei luoghi”.

Ecco, dunque, che nelle aree come la Val d’Orcia, dove si è affermato un processo di valorizzazione turistica, il problema che si pone e si deve porre, semmai, è come si possano coniugare le nuove funzioni terziarie con un processo effettivo di empowerment delle comunità locali agganciato alle vocazioni originarie dei luoghi, all’identità e all’umanità del paesaggio, alle produzioni agricole e artigianali tradizionali. Il resto – come diceva un grande scienziato come il professor Antonio Michele Stanca, compresa la polemica ‘inutile’ sulla depolverizzazione (ebbene sì è un termine tecnico e non inventato) di un piccolo tratto di strada autorizzato e con tutti i permessi necessari secondo quanto previsto dalle normative, “sono chiacchiere da salone da barba”.

E il turismo può essere certamente una delle gambe della rinascita territoriale in tante aree rurali del Paese e i dati ce lo stanno a dimostrare. Se i dati demografici hanno, infatti, fatto registrare una diminuzione del 35,5% di abitanti negli ultimi cinquant’anni, a fare da contraltare ci sono le presenze turistiche e, conseguentemente, il numero delle strutture ricettive che segnano un trend in continua crescita. Nel 1992 le presenze nelle strutture ricettive della Val d’Orcia (dati Osservatorio turistico di destinazione) erano state 79.459, nel 2007 354.835, nel 2019 sono state 623.429 mentre gli arrivi nel 1992 erano stati 29.649, 109.878 nel 2007 e 244.627 nel 2019 con una permanenza media di 2,61 giorni. Il numero delle strutture ricettive in Val d’Orcia nel 1992 era pari a 47. Salito a 352 nel 2007, nel 2019 è arrivato ad un totale di 439 tra servizi alberghieri (32) e servizi extralberghieri (457).

Un fenomeno, quest’ultimo, che però deve essere sostenuto e non separato dalla promozione della qualità della vita delle comunità insediate. Per questo occorrono consapevolezza, riconoscimento delle risorse locali e politiche di sistema, valorizzazione delle specificità.

Se l’opinione pubblica e la politica avranno la forza di riportare la discussione su questi binari, forse, anche per le aree rurali ci potrà essere un futuro. Viceversa, ci dovremo rassegnare ad accettare il pensiero dominante dei social che ha completamente e drammaticamente azzerato la criticità del giudizio nelle persone che si accontentano della superficialità nell’analisi e aumentato la distanza, contrariamente a quanto si possa pensare, tra i cittadini, le istituzioni e gli enti di riferimento.

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