ROMA – Il 94,5% dei comuni montani della Toscana, ben 104, è a rischio frane mentre il 95,5%, ben 105, è a rischio alluvioni. Lo rivela il dossier di Uncem sulla mappa del rischio idrogeologico secondo cui gli abitanti che in Italia vivono in comuni con rischio elevato sono 6,7 milioni, ed il 58% di questi si trova in montagna.
Nel rapporto viene proposta una mappa del rischio di frane in Italia, all’interno della quale sono stati classificati come “rischiosi” i comuni nei quali almeno un abitante risulti residente in un’area considerata idrogeologicamente a rischio “elevato” o “medio” di frane, mentre i comuni “molto rischiosi” sono quelli in cui almeno un abitante è residente in un’area classificata ad elevato rischio di frane.
I risultati evidenziano come il rischio franoso caratterizzi pressoché tutto il territorio italiano, seppure in misura variabile relativamente al livello di montanità del comune: complessivamente, ben il 63,9% dei comuni risulta avere almeno una porzione del proprio territorio investita dal rischio frane (5.111 comuni in termini assoluti), e di essi i comuni a rischio elevato sono ben 4.905, rappresentando il 61,3% del totale. Il rischio frane interessa in misura più significativa i comuni montani, dove la percentuale di quelli con un territorio interamente o parzialmente “a rischio” si attesta all’84,5% del totale (2.934 comuni in valori assoluti), e dove quella dei comuni “ad elevato rischio” raggiunge l’81,4% (2.827 comuni); diversamente, nei territori non montani tali percentuali si attestano rispettivamente al 48,1% e al 45,9% (2.177 e 2.078 comuni).
“Ancora in ginocchio una parte del territorio regionale, del Paese, dopo le Marche due mesi fa, colpita da disastri e situazioni che impongono azioni diverse, politiche ambientali vere, prevenzione e cura, sempre annunciate e mai poste in essere concretamente. Servono almeno 5 miliardi di euro l’anno per dieci anni contro il dissesto” sostiene l’Unione nazionale comuni comunità enti montani in una nota del presidente nazionale, Marco Bussone.
Nello specifico, il rischio di frane caratterizza soprattutto i comuni dell’Appennino settentrionale e meridionale, dove la percentuale di territori a rischio si attesta rispettivamente al 99,2% e al 97% del totale (99,2% e 95% la quota di comuni ad alto rischio); a seguire, percentuali significative si registrano anche tra i comuni montani della Sicilia e lungo l’Arco alpino, con una percentuale pari rispettivamente al 90,2% e all’80,4% (79,4% e 76,1% i territori ad alto rischio), mentre valori relativamente più contenuti riguardano i territori montani della Sardegna, dove i comuni “rischiosi” rappresentano il 56,3% del totale e quelli “molto rischiosi” il 51,6% (rispettivamente 121 e 111 comuni in valori assoluti).
L’analisi per macro-area geografica evidenzia come il dissesto idrogeologico caratterizzi in misura maggioritaria le regioni del Centro e del Meridione, dove la quota di comuni al cui interno sono presenti territori a rischio frane rappresentano rispettivamente l’85,9% ed il 79,7% del totale (846 e 2.036 comuni in termini assoluti), a fronte di una percentuale significativamente inferiore al Nord dove – pur rilevandosi un elevato numero di comuni a rischio in valori assoluti, pari a 2.229 – in termini relativi tale quota si attesta ad “appena” il 50% del totale.
In una strategia di riproduzione (riappropriazione) di condizioni generali di vivibilità della montagna e di sicurezza territoriale dell’intero Paese, bisogna mettere al centro il tema del lavoro di cura del territorio e della sua organizzazione sociale. Riconsiderare i modi, le pratiche e le istituzioni attraverso le quali la presenza umana è stata – e potrà essere ancora in futuro – capace di esercitare una regolazione efficace del proprio rapporto con la natura. Un equilibrio provvisorio, mutevole e magari precario, ma capace comunque di scongiurare la minaccia di un disastro incombente che può derivare tanto da un prelievo irresponsabile delle risorse naturali quanto dall’ abbandono, altrettanto irresponsabile, dei luoghi che per mille ragioni non sono più produttivi o degli scarti dell’attività umana.
Secondo il rapporto 1/3 del territorio nazionale “è uscito dal controllo” delle aziende agricole nel corso degli ultimi 50 anni con la montagna che ha pagato il più alto prezzo dell’abbandono. Nelle aree montane il declino della presenza agricola ha lasciato ampi vuoti nella manutenzione, meno gravi dove un’agricoltura di montagna retta da prodotti tipici produzioni biologiche e organizzazioni di filiera ha saputo mantenere il presidio. Il deficit di manutenzione del territorio abbandonato è di qualche milione di giornate di lavoro all’anno ma può consentire di risparmiare miliardi di danni generati dal dissesto idrogeologico.