Su e giù per Arezzo, scarp de tennis e macchina fotografica, per l’anteprima di Icastica riservata alla stampa: tenera attenzione per chi non sempre è stato tenero con la kermesse voluta dal Comune di Arezzo. Icastica, nell’impostazione e nella presentazione del progetto, ha conservato tutti i modi dello scorso anno, quello della sua prima edizione. Il gusto per la citazione – il depliant e l’ingresso alla Galleria Comunale d’Arte Contemporanea si aprono con la riflessione che Albert Einstein fece sulla grande crisi nel suo «Il mondo come io lo vedo» – l’autocelebrazione, le acrobazie dialettiche e l’impegnativa dichiarazione «Icastica significa arte di rappresentare la realtà in modo efficace, incisivo, sintetico, che diventa turismo ed economia». Staremo a vedere.

I luoghi dell’esposizione Intanto abbiamo visto le opere, scelte ubbidendo al tema di quest’anno, la rinascita. La formula è ancora la stessa, un’esposizione itinerante racchiusa in un percorso che tocca i luoghi più rappresentativi del centro storico di Arezzo: il cuore è nella Galleria Comunale d’Arte Contemporanea di Piazza San Francesco, poi Palazzo Chianini-Vincenzi, Sant’Ignazio, il  sottosagrato della basilica di San Francesco, il Museo Nazionale d’Arte Medievale e Moderna, Palazzo Lambardi ma anche la piazza del Praticino, Corso Italia, piazza della Badia, la Casa di Giorgio Vasari, il Palazzo di Fraternita, il Museo Archeologico, la Casa di Ivan Bruschi, piazza della Repubblica, piazza San Jacopo. La maggior parte degli ingressi è gratuita, scelta felice per le sedi comunali.

Marin-Cabeza-de-Hombre-Soplador-236x300Come è Icastica 2014 Complessivamente, di qualità superiore rispetto all’edizione 2013. Se i nomi di Yoko Ono e di Marina Abramović lo scorso anno attirarono i visitatori per poi respingerli vista la qualità modesta delle opere esposte, quest’anno tutto parla un linguaggio più compiuto, a volte addirittura accattivante. E’ il caso della Cabeza de mujer del messicano Javier Marin, dei   marmi inattesi e sorprendenti di Fabio Viale, di Purity dello statunitense Barry x Ball (un omaggio alla Pudicizia velata della Cappella Sansevero?), delle “ombre” di Brigitte Zieger. Altre opere, belle ma già più volte viste in giro, comunque si rivedono volentieri qui ad Arezzo: per esempio, quelle di Pistoletto nello splendore rococò dell’ex chiesa di Sant’Ignazio e nel “piccolo mare” del superbo mosaico romano di Palazzo Lambardi.

Le opere all’aperto Poi ci sono le opere sospese, proiettate, deambulanti che animano i luoghi all’aperto: tutte interessanti, nessuna esplosiva. Così come appare molto forzato il tema della morte portato mestamente nella Galleria Comunale di Arte Contemporanea attraverso reperti etruschi e classici che non dispiacciano mai, con il Calco di gruppo scheletrico di Ercolano, i Reperti alluvionati di Firenze, il Sarcofago e mummia di Telesforo preso in prestito dal vicino  Museo Egizio di Firenze, qualche bel pezzo proveniente da Volterra. Nella stessa Galleria è collocata la bruttissima The black shit di Damien Hirst, il povero montone in teca di vetro e acciaio che ha fatto infuriare migliaia di aretini (si parla di 5000 firme raccolte contro Hirst e di molta rabbia per non essere stati né ascoltati né ricevuti dagli organizzatori). Ingenui e integralisti insieme, i firmatari avrebbero fatto meglio a raccogliere le adesioni contro il Brutto e l’Inutile: sarebbe stata una vera provocazione e un’efficace risposta a chi ha detto che «l’opera di Hirst è importante perché di proprietà della Fondazione Prada». Chi conosce l’arte contemporanea sa che l’essere promossa e acquistata dai grandi della moda si è rivelata un’autentica pacchia, soprattutto per gli autori dei «pacchi».

Cosa non convince Proprio il pay off del curatore Fabio Migliorati,  «Demusealizzare l’arte». Esso è un controsenso visto che le opere più interessanti sono tutte al chiuso, in sale e palazzi adibiti a musei. Di più, il percorso che porta dalla Galleria Comunale al Museo e a Casa Vasari è lungo ma povero di opere (a parte quella di Javier Marin in piazza della Badia) e il visitatore dimentica nel percorrerlo che è lì per l’arte contemporanea. Cosa che accade anche ad altri percorsi. Allora, o puntare su di una visione contemporanea delle piazze e delle strade della città o su di un’arte educatamente esposta nei luoghi consacrati. Per farle entrambe, sarebbero state necessarie almeno altre cento opere e chissà quanti altri soldi.

di Giulia Ambrosio

(foto di Anna Martini)