Cinquant’anni fa, di questi tempi, la tv americana ABC mandava in onda il primo episodio di Happy Days. Da noi arrivò nel ’77, e io ho ancora nitido il ricordo di un mondo che, alle sette meno dieci, si fermava. O, almeno, il nostro mondo; quello che comprendeva i ragazzi tra la quinta elementare e la prima-seconda superiore, e che si videro improvvisamente piombare addosso il paradiso.
La televisione era ancora un oggetto misterioso, e un pò infido: quasi tutti avevano il bianco e nero, non esisteva il telecomando e la scelta si limitava al primo (il “Nazionale”) e il secondo canale. Sopra, l’immancabile centrino a uncinetto con il souvenir di Venezia e, terminata la visione, il drappo a coprirne lo schermo. Per proteggere l’apparecchio dalla polvere, si diceva, ma anche per dare l’idea di un ideale sipario… Rappresentazione plastica di una società con l’edonismo ridotto all’osso, molto più dovere che piacere; un mondo dove il gioco, anche se bello, doveva durare poco, per poi tornare a pensare alle “cose serie”: il babbo al lavoro, la mamma alle faccende, i figlioli alla scuola. Ricordo quando, di lì a poco, arrivarono le tv locali e qualche donnetta corse subito a confessarlo al parroco: “Mio marito ha messo l’antenna per vedere la Svizzera e Capodistria… Non sarà troppo?”.
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Il nostro paradiso cominciava alle sette meno dieci, sul secondo canale: Goldrake si prese la fascia cosiddetta “preadolescenziale”, che ne decretò un trionfo assoluto. Happy Days, che arrivava a ruota, trattenne quella e si accaparro’ anche i ragazzi più grandi… Non fu Sandokan perché Sandokan fu un fenomeno di costume epocale e abbastanza inspiegabile. Ma vi andò abbastanza vicino.
Visto con gli occhi di adesso, potrebbe risultare inspiegabile anche il delirio che scatenò, all’epoca, questo leggerissimo telefilm. Provate, voi ultracinquantenni, a far vedere uno di quegli episodi ai vostri figli o nipoti (abituati alle attuali serie televisive) e la risposta sarà inesorabilmente la stessa: “Embè? Tutto qui?”. O, anche peggio: “Ma davvero vi piaceva questa roba?”.
Eppure quelle storielle, ingenue e impalpabili, ci incollavano alla tv con una partecipazione e un entusiasmo quasi patologico, e l’episodio visto la sera prima lo replicavamo il giorno dopo, a scuola, ripetendone passo passo le battute.
E poi c’era Fonzie.
Che fu la vera chiave del successo di un “plot” basato su personaggi abbastanza ordinari, e scontati. Fonzie non era solo lo “sciupafemmine” del gruppo (in un momento dove nessuno di noi, o quasi, aveva mai baciato una ragazza): lì, gli sceneggiatori vollero esagerare, e riempirono quel personaggio all’inverosimile. Fonzie era, contemporaneamente, James Dean e Marlon Brando. Bogart , John Travolta ed Elvis… Fu inventata addirittura la maschera di carnevale, che andò ovviamente fortissimo, e soppiantò Zorro e Arlecchino. Ogni paese, anche il più piccolo, ebbe il suo personale Fonzie da esibire: quello che alzava il pollice sussurrando “ehiiii”, e pretendeva di accendere il jukebox del Circolo con un cazzotto.
Henry Winkler, si chiamava quell’attore. Che dal successo del personaggio rimase regolarmente schiacciato: come lo fu Kabir Bedi, ma anche Cino Tortorella, che quando fu chiamato ad una comparsata in un film giallo, la gente ne rimase quasi sconvolta: “Toh… Mago Zurlì si è arruolato nei Carabinieri”.
E io mi ricordo anche di quando, qualche anno dopo, invitarono finalmente Fonzie in Italia, per ritirare il Telegatto di Sorrisi e Canzoni, e noi tutti lì in prima fila, libidinosi, a goderci quell’idolo inarrivabile, in diretta televisiva. E che fu, invece, una delusione tremenda. Perché il Fonzie che si presentò davanti a Daniele Piombi ci parve subito un tipo assolutamente insignificante. Senza giubbotto di pelle, né motocicletta, una voce quasi fastidiosa e una lunga barba che lo rendeva praticamente irriconoscibile.
Alighiero, che era parecchio più grande, ne approfitto per canzonarci: “Aspettavate Elvis Presley, ed è arrivato Brandano”. La nostra adolescenza era ufficialmente finita.