Chi non sa fare a meno di inserire un artista entro una tendenza codificata si affretterà a scrivere che Gian Marco Montesano (Torino, 1949), il pittore cui è stato affidato l’incarico di preparare il drappellone per il Palio straordinario in memoria dei caduti della Grande Guerra, ha fatto parte del “medialismo”, categoria che include quanti si son cimentati in opere costruite ricorrendo ai media più vari, ai cimeli che pullulano nel mobile e affollato immaginario dei nostri giorni. Chi ha visto nel 2010 la mostra di San Giovanni Valdarno dedicata a “Guerra e Pace” sa con quanta vorace passione Montesano tragga da fotografie e reperti del sanguinoso Novecento materia per il suo lavoro. Immagini do guerra si alternavano alle copertine del popolarissimo “Grand Hotel”, gli oggetti-culto dell’Italia del miracolo economico stavano accanto a ritratti da manifesto cinematografico.
Ma l’esposizione che più di ogni altra deve aver convinto la committenza a rivolgersi al riservato e ambiguo autore è stata forse quella bolognese del 2015, che aveva a titolo una canzone degli alpini: “Era una notte che pioveva”. In quell’occasione il furore che spinge Montesano a presentare il passato in composizioni tragiche e ironiche si sfrenò ed i risultati furono sorprendenti. Taluni spiazzanti e ambigui. Montesano ha studiato dai salesiani del seminario di Valdocco per poi indossare con fierezza la divisa di alpino. Queste due esperienze l’hanno segnato in profondità. La memoria collettiva deriva dal ritrovare spezzoni dei propri personali ricordi: come aggirarsi in un disordinato magazzino nel tentativo di trarne momenti depositati nella tua mente.
Essere etichettato postmoderno non gli piace: «essere postumo – ha sentenziato – è il cadavere del Moderno». Deve molto alla Parigi estremista e anarcoide di Deleuze, Guattari e Jean Baudrillard, che gli ha dedicato acute pagine. Vicino a Toni Negri e a “Potere Operaio”, in rivolta e in silenzio, Montesano è un enigma venuto dal freddo. Il Palio che non l’ha mai visto. Peccato davvero per uno che si dice affascinato dal «guardare ai simboli che nascono dal gioco collettivo e non alle persone».
Pubblicato da Il Corriere Fiorentino, 20 settembre 2018