E’ ormai imminente la soppressione/accorpamento delle province. Scimmiottando i cugini francesi erano nate in Italia nel 1859 con il decreto Rattazzi; moriranno, di morte assistita, per decreto (altrimenti detto ‘salva Italia’) del ministro Patroni Griffi. E così sia. Ma le considerazioni da fare non riguardano tanto le ragioni del provvedimento, quanto i criteri ‘tecnici’ (numeri, linee, proporzioni da mera carta geografica) che lo hanno supportato. Quasi da dover dire che ad un governo di tecnici sarebbe opportuno affiancare anche qualche ‘umanista’. Nel caso delle province – giustappunto senza una cognizione ‘umanistica’ – si è praticamente confuso la terra con il territorio, la geografia con i luoghi. Ovvero non si è considerato che un territorio, prima ancora di essere una mappa, è una memoria collettiva, un’identità culturale, un’esperienza di vite. Le persone vivono e si spostano all’interno dei propri luoghi riconoscendovi anche uno spazio affettivo, emozionale, simbolico. Per chi abita un determinato posto, quella terra va ben oltre la sua fisicità: è paesaggio mentale, spirituale, parametro estetico, addirittura valoriale. Si capirà, allora, quanto sia improprio e banalizzante definire tutto ciò ‘campanilismo’. Esiste, infatti, un senso di appartenenza che solo certi mentecatti possono trasformare in chiusura o, peggio, in razzismo. Poiché la consapevolezza di una identità è il migliore passaporto per divenire cittadini del mondo in maniera serena e intelligente. Purtroppo l’attuale vicenda delle province – se non altro dal punto di vista metodologico – ha mostrato il misconoscimento di tali principî riconducibili a una cosiddetta ‘geografia umana’, spesso diversa da quella cartografica. Scriveva Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. Probabilmente (ri)leggere un po’ di letteratura aiuterebbe pure a capire che i territori sono formati da secolari sedimenti di culture, di esistenze umane, di un qualcosa che non a caso viene chiamato ‘genius loci’. Si pensi alle Langhe descritte dallo stesso Pavese e da Fenoglio, alla Sardegna ancestrale raccontata da Salvatore Niffoi (ricorrente è il tema della memoria come simbiosi di vivi e di morti). E ancora le Crete senesi di Mario Luzi, dove gli anni “… Cercano / qui più che altrove il loro cibo, chiedono / di noi, di voi murati nella crosta / di questo corpo luminoso…”; o la Ferrara di Giorgio Bassani, reale nelle sue strade e palazzi ma anche simbolica di un modo di ‘essere’ (“Mi era bastato recuperare l’antico volto materno della mia città, riaverlo ancora una volta tutto per me, perché quell’atroce senso di esclusione che mi aveva tormentato nei giorni scorsi cadesse all’istante”). Ecco, non può esistere geografia che prescinda dalla ‘identità’ di un territorio. A meno che non voglia risultare… fuori luogo.